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In casa di Altan

di Gianni Poli
  Tinello italiano
Data di pubblicazione su web 31/10/2011  
Una lunga consuetudine con l’opera di Altan - iniziata nel 2000 con Cuori pazzi e seguita nel 2006 da Cipputi. Cronache del Bel Paese – reca il frutto ulteriore di quest’ultimo spettacolo diretto da Giorgio Gallione al Teatro dell’Archivolto, in co-produzione col Teatro Stabile di Genova. La Compagnia, che si avvale di attori di provenienze diverse, riesce a formare un gruppo ben affiatato, sensibile alle esigenze di collaborazione paritetica care al regista. In rinnovato approccio a testi non evidentemente teatrali, Gallione impone un’azione brillante, condotta da un ritmo elevato, impresso a una materia verbale e mimica molto frammentaria ed eterogenea. Sintetizzare e svolgere in racconto drammaticamente plausibile tante e tali battute e immagini folgoranti del famoso disegnatore satirico, è ardua sfida per la messa in scena. «Gli aforismi di Altan si rivelano più efficaci perfino di un editoriale giornalistico», sostiene il regista, che spiega: «È stato come montare una serie di francobolli che alla fine compongono l’anamnesi di un Paese non proprio in forma dal punto di vista etico e morale». Nelle prove precedenti, Gallione aveva utilizzato i numeri di un cabaret fantasioso e impertinente, coadiuvato da musica e canzoni. Qui ottiene una forse maggiore continuità e coerenza proprio dalle canzoni, affidate alla voce solista dalle fonde e ironiche sfumature timbriche di Rosanna Naddeo; spesso concluse in coro: come nell’Inno nazionale di Mameli (distorto), in apertura e l’Internazionale (similmente stonato), in chiusura. Poiché il movimento è in generale coreografico, quasi dando luogo a un balletto, la musica di Paolo Silvestri fornisce, più che semplice raccordo fra le scene, sostegno in contrappunto o accompagnamento all’azione: i motivi sono un allegro in due tempi, frasi di pianoforte subdolamente romantiche e un ritmo di tango, capaci di volgere al grottesco i registri più cattivanti e clamorosi della farsa.  



(Foto di Bepi Caroli)

 

 

Personaggi e vicende si affollano repentinamente, vivono pochi istanti e svaniscono, per riproporsi in ennesime varianti. È la reazione a scoppio ritardato a produrre il contatto più efficace con l’intelligenza dello spettatore. Il risultato è trascinante quando Gallione gioca con un concertato di duetti che coinvolgono man mano il collettivo. L’avvio d’ogni situazione, tema o episodio, è affidato alle due figure più distaccate dei Cronisti (o Narratori) in completo nero: Massimo Mesciulam, che poi diventa Silvio-il-giovane e il Parlamentare e Rosanna Naddeo, che oltre a scandire comunicati immancabilmente allarmanti, li volge in canto con potente partecipazione; per poi assumere qualche personaggio riconoscibile, come una delle vedove degli operai vittime del lavoro. Lo spazio scenico rettangolare è piuttosto neutro e gli oggetti che lo arredano indicano, oltre al «tinello» destinato ad aprirsi simbolicamente sulla «piazza», anche la camera da letto e la cucina. Le tre pareti sono tappezzate uniformemente da pagine di giornale. La luce definisce via via il luogo di un’azione che dal nucleo di coppia si allarga a partecipazione corale. Nella drammaturgia di Gallione, le scenette sono ritagliate e rifuse in una tessitura variegata, ma unitaria e fedele all’originale; fra allusioni pungenti e dialoghi dal linguaggio volgarmente scatologico. La cifra linguistica tipica dell’artista e polemista, acquista una levità surreale, con conseguenze più profonde dell’ilarità suscitata al primo impatto dell’immagine. Lo spettacolo è decisamente «politico», sia nelle sequenze direttamente critiche verso i responsabili del governo, sia nell’evidenziare situazioni diffuse di disagio o degradazione socio-culturale. Eppure l’amarezza e il pessimismo intrinseci alle creature di Altan sono equilibrati (come elevati, se non certo sublimati) attraverso il gioco dell’iperbole e dell’ironia, del contrasto che l’abulia o la disperazione dei personaggi suscita rispetto alla vivacità delle battute e degli scatti mimici contrapposti alla realtà rappresentata. Tant’è che quando l’esperienza personale diventa collettiva, la funzione del Coro è di riflettere acremente sul grado di sostenibilità del tragico, sul limite del suo sprofondamento nel comico. La sarabanda di aforismi e freddure su stati d’animo e comportamenti comuni e quotidiani, svolge e condensa un resoconto a bilancio di un’epoca recente della nostra storia, una riflessione globale sui cambiamenti iniziati a partire dagli anni Sessanta e che ora si aprono su un futuro sempre più drammaticamente vuoto. Qui le forme si scatenano in inversioni paradossali di luoghi comuni o di frasi «storiche», sicché la coscienza e l’orgoglio della partecipazione a eventi epocali preferiscono poter dire «io non c’ero».  



(Foto di Bepi Caroli)

 

 

I momenti più aggressivi della satira sono nella parabola ascendente di Silvio-il-giovane, rievocata da un Massimo Mesciulam nei toni particolarmente severi e distaccati da documentario; e nel Parlamentare assediato dal popolo questuante, interpretata con insofferenza e disprezzo. Sono anche quelli che illustrano la delusione seguita al tramonto delle ideologie, specialmente quella marxista e la trasformazione con occultamento della classe operaia. Questa si rappresenta nella coppia già celebrata di Cipputi e Bundazzi (Scaramuzzino e Pirovano, in tuta e armati di falce e martello) offesi e stupefatti, travolti dalla Storia. Una variante al loro destino infausto li mostra vittime dell’amianto delle lavorazioni navali, secondo la dolorose testimonianze delle vedove (Simona Guarino e Rosanna Naddeo) in brevi monologhi dalla disarmante commozione. Innumerevoli aneddoti, esilaranti e raggelanti, coinvolgono ancora i rapporti della coppia-tipo di Gino e Gina (Scaramuzzino e una Simona Guarino dall’ostentata sciatteria e protervia, a costituire esemplari «maschere» contemporanee), alle prese con tragicomiche disavventure sessuali ed educative (con figli simpaticamente maliziosi o sbandati, interpretati da Vito Saccinto, Melania Genna e Sarah Pesca), segnate da cupe allusioni a equivoci e violenze familiari.

 

Qualche inciampo comunicativo può forse rilevarsi nel cambiare e sovrapporsi di temi e prospettive sì disparati, per cui gli attori non possono mai calarsi in un carattere definito. Così anche è difficile adeguare le diverse maturità espressive ai ruoli cangianti e diseguali. I più giovani comunque interagiscono tempestivamente con i protagonisti maggiori, dimostrando un entusiasmo non inferiore alla precisione della performance recitativa. «C’è molto da ridere - dichiara Gallione - ma poco da stare allegri». Del resto, il gradimento del pubblico è sottolineato da frequenti applausi a scena aperta e dall’ovazione finale indirizzata all’autore chiamato in palcoscenico.  


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