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Il male oscuro

di Elisa Uffreduzzi
  Melancholia
Data di pubblicazione su web 25/10/2011  

Un prologo visionario e immaginifico, commentato dalle sole cupe e maestose note wagneriane del Tristan und Isolde, apre l’angosciante Melancholia di Lars von Trier. In queste immagini di distruzione che scorrono al ralenti, si esaurisce l’apocalisse secondo il regista danese. Pochi distinti quadri in cui a fantascientifici panorami aerospaziali, si alternano visioni ricche di citazioni pittoriche preraffaellite, sia a livello iconografico, che di trama visiva (la fotografia di Manuel Alberto Claro). Scopriremo più avanti che mentre alcune di queste inquadrature prefigurano in flashforward la catastrofe imminente, altre sono proiezioni della mente malata di una delle due protagoniste (vedi la scena in cui intricati fili di lana grigia ne ostacolano il cammino). Del resto l’Ofelia di John Everett Millais compare esplicitamente sullo schermo, in uno dei libri che una disperata Justine affigge alla parete durante una delle sue crisi.

Rimarrà dunque deluso chi si aspettava devastazioni a catena alla Roland Emmerich (un titolo per tutti: The Day After Tomorrow, 2004). Nelle parole stesse del regista, infatti, «Melancholia non è un film sulla fine del mondo ma su uno stato mentale, la depressione, che è quello della mia vita adesso». Von Trier, in occasione della presentazione del film allo scorso Festival di Cannes (2011), aveva dunque esplicitato i suoi intenti realizzativi, fugando ogni dubbio. Anche l’ambiguo termine posto a titolo dell’opera tradisce immediatamente il leitmotiv sotteso alla vicenda narrata. Melancholia è infatti insieme il nome del pianeta in rotta di collisione con la Terra, ma anche un eufemistico riferimento alla depressione, la malattia che affligge una delle protagoniste.

 


 



 

 

Divisa in due parti, la storia racconta con una lentezza esasperante il difficile rapporto tra due sorelle, parallelamente all’incidente cosmico in corso. Lo scontro dei due pianeti si sovrappone così a quello di Justine (Kirsten Dunst) e Claire (Charlotte Gainsbourg), i cui nomi danno il titolo a ciascuna delle due parti costitutive del film.

La prima affetta da una grave depressione, la seconda solo apparentemente più forte, sono l’una il doppio dell’altra, in un’asimmetria psicologica che culmina nello scambio di ruoli cui dà luogo la catastrofe che incombe. Il regista sembra così voler suggerire che la depressione è un morbo dal quale nessuno può dirsi con certezza immune, una sorta di ombra oscura, di cui la risolutezza è solo l’altra faccia luminosa.

Ripetutamente nel corso del film, tra i vari segni premonitori della collisione, figura un ponte – quello che separa la tenuta in cui Claire vive con la sua famiglia, dalla strada che porta in paese – che i cavalli si rifiutano di oltrepassare e di fronte al quale persino il caddy si spenge. Un episodio che, mentre rappresenta la condanna all’isolamento per Claire e i suoi, torna ossessivamente a ribadire che nella morte più che mai ognuno è solo con se stesso.

Dal punto di vista registico von Trier affianca ad alcuni stilemi caratteristici del Dogma 95 scelte agli antipodi di quel manifesto, che denotano al contrario l’uso di effetti speciali in post-produzione e un calligrafismo visivo paragonabile a quello adottato da Terrence Malick in The Tree of Life (2011): un film che gli somiglia per cura formale, stile iconografico e visione della Natura potente, maligna e catastrofica. Del resto la diafana bellezza di Kirsten Dunst è in certa misura equiparabile a quella della Jessica Chastain scelta da Malick. Qui come nelle elaborate immagini del regista americano, la qualità e l’apporto visivo dell’inquadratura eccedono dalla funzione narrativa, accedendo a una dimensione in cui la forma è fine a se stessa. Più chiaramente, potremmo definire questa che sembra una tendenza in espansione, una sorta di neocalligrafismo cinematografico.

Quanto alle reminiscenze del Dogma 95, si ravvisa un uso estenuante della macchina a mano, volutamente molesto: è evidente la ricerca di un effetto straniante del mezzo di ripresa, che “facendosi sentire” sfacciatamente, allontana lo spettatore, richiamandolo non tanto o non solo alla realtà, quanto piuttosto – brechtianamente – alla riflessione sui temi (depressione, apocalisse, morte) esposti nel corso del lungometraggio. Sono infatti frequenti panoramiche “a schiaffo” e zoomate repentine in avanti e indietro; primi piani e carrellate traballanti, dovuti alla deliberata scelta della ripresa in continuità, laddove un semplice stacco di montaggio avrebbe reso più fluido ma certo anche meno “didattico” lo stile di regia.

Il cast stellare del film, oltre a Kirsten Dunst – giustamente premiata a Cannes 2011 come miglior attrice protagonista per l’interpretazione della psicolabile Justine – e a Charlotte Gainsbourg (memorabile la sua capacità di passare dalla rigida ed energica donna delle prime sequenze, alla fragile e disperata Claire delle ultime immagini); si fregia di nomi altisonanti come John Hurt (nel ruolo di Dexter, il padre delle due sorelle), Charlotte Rampling (Gaby, l’algida e ostile madre) e Kiefer Sutherland (John, il marito di Claire, appassionato di astronomia fino all’esaltazione).

L’interpretazione – naturalistica, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare stando alle scelte registiche – conferisce credibilità alla vicenda fantascientifica che fa da sfondo alla melancholia di Justine prima e di Claire poi. Non mancano tuttavia inserti antinaturalistici come le stesse immagini del prologo o i monologhi allucinati di Justine, tra una crisi depressiva e l’altra.

 


 



 

 

Quello del prologo è un vezzo in cui von Trier indulge spesso. Tuttavia mentre in altre occasioni esso assolveva a una funzione esclusivamente narrativa, qui assume un diverso valore. In Dogville (2003) ad esempio (film in nove capitoli e un prologo) era funzionale alla presentazione di ambientazione e personaggi e le note del Concerto in Sol Maggiore di Vivaldi “sfumavano” sotto la voce del narratore extradiegetico, sottolineandone così il ruolo al servizio del racconto. Ancora in Antichrist(2009) per citare un altro esempio recente, esso narrava l’antefatto della vicenda, di nuovo rimanendo funzionale al racconto. Se però l’uso della musica di sottofondo al ralenti delle immagini (l'aria Lascia ch'io pianga di Georg Friedrich Händel), anticipava la modalità realizzativa del prologo di Melancholia, ben diversa è l’utilità di quest’ultima introduzione: non soltanto un flashforward su quanto sta per accadere – laddove invece nei casi citati era la pre-storia del film a impegnarne l’ouverture – ma anche una serie di visioni oniriche che non troveranno affatto spazio nella narrazione. Come nel caso dell’immagine-icona del film, in cui Kirsten Dunst in abito da sposa giace nell’acqua, imitando la già citata Ofelia di Millais o nell’inquadratura del cavallo che crolla a terra, o ancora in quella di Claire con il bambino tra le braccia che affonda i piedi nel prato del campo da golf. Una scena che in effetti vedremo nel corso del film, ma svolta in maniera diversa, con Claire che corre sì col figlio in braccio, ma senza affondare i piedi nel terreno. Von Trier suggerisce così una successione di “altre vie”, non percorse ma solo abbozzate, che il film avrebbe potuto prendere e ha invece solo accennato.



Melancholia
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