Per Cheyenne, ex rockstar dal
cervello bruciato dalle droghe e dallalcol, la morte del padre è il motore di
avvio di un percorso, non solo fisico, che dalla Dublino dove conduce una
comoda e annoiata esistenza, lo porterà a viaggiare attraverso gli Stati Uniti
ma soprattutto lo condurrà alla vita adulta che rifugge da trentanni: gli
stessi in cui si è tenuto a debita distanza da un padre che non laveva mai
accettato, sostenuto, amato. Sulle tracce del soldato nazista che ad Auschwitz
aveva inflitto al padre pene indicibili, Cheyenne viaggia attraverso il
paesaggio americano incontrando luoghi, personaggi e storie che, progressivamente,
lo portano ad una maggiore consapevolezza di sé (e forse a conoscere meglio
quel padre di cui non sa niente). Tra road
movie e romanzo di formazione, Paolo
Sorrentino conduce la sua fiaba surreale e grottesca riuscendo a rendere
credibile linverosimile.
This Must Be the Place, la canzone dei Talking Heads (dallalbum Speaking in Tongues, 1983) che dà il
titolo al film, è il posto in cui trovare il vetusto aguzzino del padre e il luogo
in cui capire che è tempo di vestire i panni delladulto. La splendida maschera
immobile di Sean Penn dipinge sullo
schermo una sorta di clown: la bocca troppo larga, gli occhi truccati; tutto
amplifica espressioni ed emozioni che prorompono sullo schermo allimprovviso,
imprevedibili ed eccessive come solo nellinfanzia può accadere.
«Qualcosa mi ha disturbato, non
so dire cosa, ma qualcosa mi ha disturbato», dirà in più occasioni nel corso
del film, con la stessa apparente insensatezza dei capricci di un bambino che però
nascondono unimpercettibile piega
dellanimo colpita, offesa, umiliata.
Sorrentino si conferma uno dei
giovani talenti del nostro cinema, con un film in cui sa toccare le corde
dellemotività camuffando la sensibilità dietro il rossetto di Cheyenne,
proprio come ne Il divo aveva saputo
dissimulare limpegno civile con la satira politica. Torna il suo stile fresco
e scattante, da videoclip, con il gusto per leffetto sorpresa allinterno
dellinquadratura, dato ora dal personaggio inizialmente nascosto e poi scoperto
dalla macchina da presa; ora da un inaspettato zoom allindietro o da
unangolazione insolita; ora dalla panoramica a 360° che ci mostra lambiente
circostante; ora dalle frequenti micro-ellissi temporali; ora infine dal gioco
dei vari piani allinterno della stessa inquadratura. Punteggiano la scrittura
visiva le ricorrenti inquadrature naturalistiche, in cui è il paesaggio delle
lande americane a predominare e sorprendere – di nuovo – lo spettatore,
attraverso magniloquenti vedute grandangolari. La fotografia del fedele Luca Bigazzi stavolta si distanzia
nettamente dai precedenti film di Sorrentino, abbandonando il precedente stile
asciutto per avvolgere le immagini in una patina retró.
Per maniera visiva e misura
intimistica della storia, This Must Be the
Place ricorda molto un altro road movie sui generis, The Straight Story di David
Lynch (1999), anche quello fatto più di silenzi che di sceneggiatura (qui lautore
è Sorrentino stesso, in coppia con Umberto
Contarello) e in cui quello stesso paesaggio americano dove la poesia
scaturisce dalla desolazione dominava lo sguardo. Non a caso nel cast scelto da
Sorrentino torna Harry Dean Stanton
(nei panni dellinventore Robert Plath). Sorrentino affida a unattrice come Frances McDormand la parte della moglie
di Cheyenne: più volte attrice per i fratelli Coen, il suo volto porta con sé
il ricordo di tanti loro film. Nel cast, oltre a Eve Hewson (la sedicenne fan di Cheyenne, Mary), figlia del
cantante e leader degli U2, che fornisce una discreta prova, figura Judd Hirsch, interprete dellebreo “da
farsa” Mordecai Levy che veicola con leggerezza il tema dellOlocausto. Nel
ruolo di Rachel – la nipote del nazista – che instaura con Cheyenne un rapporto
di sintonia emotiva, Kerry Condon regala
uno stralcio garbato ed eloquente di quellAmerica sbandata e depressa
protagonista di tanti road movie. Il regista ha dichiarato di aver scritto
questo film per Sean Penn che, senza
ridondanze, sa calarsi perfettamente in un ruolo non facile, in bilico tra naiveté e spessore morale.
La colonna sonora, cui Sorrentino
è sempre particolarmente attento e che spesso ha usato in contrasto con le
immagini per enfatizzare il grottesco, è ancor più incisiva in questo racconto di
una rockstar, ritratta a immagine del leader dei Cure, Robert Smith. Ne sono
artefici il già citato David Byrne
(presente nel film nei panni di se stesso), insieme al cantautore americano Will Oldham, specializzato in canzoni folk
e country. Un mix brit-americano che ricalca a livello sonoro quello che le
immagini – girate tra Irlanda e Stati Uniti – ci dicono visivamente.
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