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A volte ritornano

di Vincenzo Borghetti
  Il ritorno di Ulisse in patria
Data di pubblicazione su web 10/10/2011  

Con Il ritorno di Ulisse in patria la Scala giunge al suo secondo appuntamento con la trilogia di Claudio Monteverdi. L’opera mancava da questo teatro dal 1978, quando l’Opernhaus di Zurigo l’aveva portata insieme all’Orfeo e all’Incoronazione di Poppea negli storici allestimenti di Jean-Pierre Ponnelle, sotto la direzione anch’essa storica di Nikolaus Harnocourt (le tre opere erano state date una sola volta ciascuna in tre sere successive). Poi più nulla, niente Monteverdi fino al 2008/2009, stagione in cui, auspice anche il quadricentenario del primo Orfeo a Mantova appena trascorso (1607-2007), la direzione della Scala ha inaugurato una nuova produzione delle sue tre opere. Riproporre Monteverdi dopo così lunga assenza è stata una decisione coraggiosa, visto che si tratta di opere mai davvero gradite ai grandi teatri, soprattutto in Italia, dove il pubblico abituale della lirica guarda con sospetto tutto ciò che non sia almeno Mozart, e il botteghino poi ne risente. Del resto, per come è organizzata la vita teatrale italiana, anche nelle grandi città l’opera si fa in un solo teatro, e di conseguenza non esiste la possibilità per il pubblico di sperimentare con regolarità in piccole sale i repertori “antichi”, che da noi rimangono per i più un territorio ancora pochissimo esplorato.

Monteverdi alla Scala costituisce dunque un’eccezione nel panorama operistico della penisola. Un’eccezione anche perché la Scala rimette in scena Monteverdi investendo in una produzione in grande stile delle sue opere, che si spera faccia scuola nell’ambito della riproposizione moderna di opera barocca, e riporti così il teatro all’attenzione internazionale anche per un repertorio che negli ultimi trent’anni non ha frequentato in modo significativo. A questo scopo decisive sono state le scelte artistiche: la direzione musicale è affidata a uno specialista di fama della musica antica come Rinaldo Alessandrini, monteverdiano di lungo corso; la regia a Robert Wilson, figura di spicco del teatro contemporaneo d’avanguardia, che per la prima volta si cimenta con le opere di Monteverdi. Non meno rilevanti sono state le strategie della produzione: gli spettacoli sono coprodotti con l’Opéra di Parigi, e saranno tutti riversati su DVD (L’Orfeo è uscito l’anno scorso); quest’ultimo è un passaggio essenziale per costruire “l’importanza” di un allestimento, e garantirgli così visibilità e possibilmente ulteriore circolazione in futuro.

 


 



 

 

Come nell’Orfeo, ma come anche in tutti i suoi spettacoli, nel Ritorno di Ulisse Wilson procede per sottrazioni. La scena è un grande spazio aperto e vuoto, su cui a volte compaiono scabri praticabili e pochi sparuti oggetti, che si stagliano su sfondi luminescenti, con un’esibita preferenza per l’azzurrino pallido e il grigio-perla (il rosso acceso c’è solo per il naufragio dei Feaci; scene e luci di Robert Wilson; A. J. Weissbard, lighting designer). I personaggi si muovono lentamente, con quella gestualità ieratica che costituisce una delle cifre del regista. Questa impostazione visiva fa sì non solo che l’opera acquisti un valore scopertamente rituale, ma anche che l’attenzione dello spettatore sia spesso concentrata sull’espressione della parola, l’unica cosa che letteralmente “si muova” e ”cambi” in lunghi tratti di immobilità scenica. Il risultato è a volte di una potenza assoluta, in particolare per un’opera come il Ritorno di Ulisse (e le opere di Monteverdi in genere) in cui il testo ha un grande peso drammatico. I momenti più riusciti della regia di Wilson sono stati non a caso i monologhi, come il lamento di Penelope che apre il primo atto e l’ingresso di Ulisse (atto I, scena VII), il lungo dialogo tra Telemaco e sua madre (atto II, scena VI), e le scene in cui intervengono gli dei (la V del secondo atto, per esempio). Meno efficaci mi sono sembrate invece le scene di azione, in cui l’austerità dei movimenti ha creato a mio avviso qualche impaccio. Se, infatti, la Personenregie ipercontrollata di Wilson era perfetta per una favola in musica statica e cerimoniale come L’Orfeo, nel Ritorno di Ulisse essa risulta a volte estranea alla dimensione più terrena di alcuni personaggi e delle loro vicende. L’incontro e l’agnizione tra Ulisse e Telemaco, le schermaglie amorose tra Melanto ed Eurimaco, la scena tra Penelope e i pretendenti, solo per fare qualche esempio, mi sono parse emotivamente raffreddate proprio dalla generale stilizzazione dei gesti e dei movimenti, che alla fine le ha troppo uniformate alle scene più auliche o patetiche. Sono tuttavia dettagli che non pregiudicano la qualità complessiva dello spettacolo. Mi preme però aggiungere una breve annotazione: le maestranze della Scala, almeno la sera del 23 settembre, non hanno reso grande giustizia alla regia di Wilson. Il suo impianto visivo così preciso ed essenziale è stato in più occasioni sporcato da luci traballanti o indecise nel seguire i cantanti, come non dovrebbe mai succedere in un teatro di livello internazionale come la Scala.

 

Ottima sotto molti punti di vista la parte musicale. Alessandrini è stato, come già nell’Orfeo, il direttore ideale. La sua concertazione è partita dal testo poetico, l’elemento che ha guidato la sua scelta dei tempi, dei fraseggi, del volume sonoro della compagine orchestrale. I risultati ottenuti sono stati sorprendenti: nelle lunghe e difficili scene di recitativo c’è stata sempre sintonia perfetta tra buca e scena, e ciò ha permesso ai cantanti di porgere con estrema naturalezza e ricchezza di dettagli espressivi il testo, che dalla platea si percepiva distintamente anche in una sala grande come quella del Piermarini, nonostante i volumi vocali contenuti degli specialisti dell’opera barocca (e nonostante anche gli spazi vuoti predisposti da Wilson, certo non di grande sostegno alle voci).

Il cast vocale è stato in generale di alto livello. È quasi superfluo menzionare la splendida prova dei due protagonisti, Sara Mingardo e Furio Zanasi, una Penelope e un Ulisse da manuale di recitar cantando, tanto ricco di sfumature è il loro modo di interpretare il recitativo di Monteverdi, nelle cui opere si sono esibiti praticamente ovunque, e sempre con meritato successo. La sorpresa sono stati invece alcuni cantanti che finora non conoscevo, o che non avevo mai ascoltato in questo repertorio, come, per esempio Marianna Pizzolato, che, da star del belcanto primottocentesco, si è rivelata una Ericlea di rara intensità, a suo agio nella musica di Monteverdi quasi non avesse cantato altro finora. Oppure, il tenore Leonardo Cortellazzi (Telemaco), per me un’autentica scoperta, capace nel racconto a Penelope dell’incontro con Elena di Troia (atto II, scena VI) di sottigliezze vocali e interpretative che fanno sperare in un suo futuro impegno (anche) nell’opera barocca. Molto bene gli altri, di cui menziono in particolare Luigi di Donato (Il Tempo, Nettuno), Anna Maria Panzarella (Amore, Minerva), Emanuele D’Aguanno (Giove, Anfinomo), Raffaella Milanesi (Giunone). Un po’ appannata la prova di Monica Bacelli (La fortuna, Melanto), forse penalizzata da una tessitura un po’ grave. Decisamente negativa invece la prestazione di Gianpaolo Fagotto (Iro), la cui emissione problematica unita a un volume di voce ridottissimo ha compromesso l’efficacia drammatica del suo personaggio, il cui ruolo è risultato quasi incomprensibile.

Al termine il successo è stato pieno per tutti, in special modo per Alessandrini e per i due protagonisti.




Il ritorno di Ulisse in patria



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