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Parla con Vera

di Elisa Uffreduzzi
  La pelle che abito
Data di pubblicazione su web 03/10/2011  

Fastidioso, perturbante, surreale e grottesco, il nuovo film di Pedro Almodóvar ripropone tutti gli stilemi del regista che, a una ventina d’anni da Légami (1990), torna a lavorare con il suo attore-feticcio Antonio Banderas nel dramma fantascientifico La pelle che abito.

Servendosi di una serie di flashback, Almodóvar rievoca il tema dell’identità sessuale a lui caro, attraverso la vicenda personale di Robert Ledgard (Antonio Banderas), chirurgo plastico dalla vita tormentata, che dopo aver perso la moglie in seguito a un incidente stradale in cui era rimasta completamente sfigurata, fa delle ricerche sulla ricostruzione cutanea la sua missione di vita, se non un vero e proprio credo al limite del religioso, al quale sacrificare anche vite umane, ove necessario. La vita umana che in un certo senso finisce per immolare sull’altare del progresso scientifico della trasgenesi è quella di Vicente (Jan Cornet), presunto stupratore della figlia, al quale per vendetta prima cambia sesso, poi i connotati: ne modella e ricostruisce la pelle, sperimentando su di lui i risultati dei propri studi più avanguardistici.  È così che Vicente diventa Vera (Elena Anaya), seguendo un percorso certo poco credibile, ma del resto la credibilità non sembra essere una priorità per Almodóvar. Film drammatico, thriller, horror, film comico, grottesco, gusto surrealista, film di fantascienza, sentimental movie… tanti i generi che si mescolano e confondono nel nuovo pastiche creato dal regista, che per il ricorso al flashback e l’attenzione maniacal-feticista al corpo femminile ricorda molto Parla con lei (2002) dello stesso Almodóvar; del resto la Anaya aveva recitato anche in quel film.




Fa capolino anche il metacinema nelle vesti delle telecamere a circuito chiuso che il folle chirurgo ha installato in casa per controllare la paziente Vera. Quest’ultima, avvolta in un’aderente tuta di microfibra color carne, rievoca celebri figure femminili dell’immaginario cinematografico e fumettistico, da eroine del cinema muto come Protéa e Irma Vep a personaggi dei fumetti prima e del cinema poi come Eva Kant e Barbarella.

Agli interpreti del film il regista sembra aver affidato il compito di incarnare ciascuno un diverso aspetto del film: così se Marilia (Marisa Paredes) ne rappresenta l’aspetto più surrealista attraverso la sua “maschera” pressoché impassibile e Banderas è glaciale come si confà a un serial killer da manuale; Jan Cornet è al contrario espressivo come si addice a un film drammatico, almeno quanto lo è il suo alter ego Vera. Quest’ultima, nell’interpretazione della Anaya, alterna infatti momenti in cui il suo volto rimane “atono” e robotico come quello di un androide da perfezionare (e qui è il carattere fantascientifico a prevalere) a momenti in cui è invece il suo coté più umano e passionale a scaturire, sotto forma di lacrime e mimica sofferta.

Proprio il personaggio di Vera comporta una maniera registica che ricorre spesso al particolare e al dettaglio, per scandagliare con cura entomologica il volto e il corpo della Anaya, rendendoci così partecipi della morbosa attenzione di Robert per la sua pelle.




Una menzione a parte merita il personaggio iperbolico Zeca (Roberto Álamo), il pazzoide figlio di Marilia, che vestito da Uomo Tigre compie la violenza nei confronti di Vera e insieme veicola nel film un altro riferimento extradiegetico: stavolta è il campo dei cartoons (e dei manga) a fare il suo grottesco e inquietante ingresso nel film.

Tiene insieme questo variegato magma di generi e riferimenti la trama sonora. Almodóvar infatti, come sempre molto attento alla musica, si affida anche in questo caso all’ormai fedelissimo Alberto Iglesias, che del resto aveva firmato anche la colonna sonora di Parla con lei.

Iglesias delinea per l’occasione una partitura musicale in cui la funzione percussiva degli archi la fa da padrone. Spicca la voce calda e rauca della cantante spagnola Concha Buika (già in Volver, 2006) con il brano Por el amor de amar, che canta anche nel film, durante una festa, creando così ancora una volta un gioco di richiami metacinematografici e autoreferenzialità registica.




La pelle che abito
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