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Un silenzio inesprimibile.
A Giovanni Morelli


di Carmelo Alberti
  Giovanni Morelli
Data di pubblicazione su web 28/09/2011  

 

Ringraziamo la rivista «VeneziaMusica e dintorni» e il prof. Carmelo Alberti per aver consentito la pubblicazione del seguente articolo.

 

 

C’è un silenzio che non si può esprimere. Semmai, è possibile lasciarlo sospeso nell’intervallo tra le parole. Nella vita di ogni giorno, invece, sta incantucciato dietro uno sguardo distolto, un passo incerto, un sospiro ingoiato.

 

Da sempre Giovanni Morelli agisce per spezzare il tempo. Perciò, esorcizza le piccole faccende, quelle irrisolvibili e continuamente replicate, pronunciando frasi criptiche, ancor più sibilline del solito. La sua espressione enigmatica, generalmente, provoca in chi ascolta una sospensione, nel tentativo di capire. Durante quella pausa, pare di prendere il volo verso una dimensione eterea, forse vana, eppure liberatoria. Allora, sul viso di Giovanni s’allarga un sorriso felino. Il vocabolario dei suoi atti risulta talvolta imprevedibile, perché è illimitato. Un esempio di quotidianità: al supermercato è normale ch’egli s’accosti alla parete per lasciare passare gli altri. Come mai? «Mi esercito a essere paziente», risponde sornione, mentre si diverte a sfidare il cronometro collettivo.

 

Il tempo, struttura-base della storia delle civiltà e, insieme, dell’esistenza individuale, è la cifra che contrassegna l’emergere della musica. Per Morelli il tempo è il paradosso necessario, a partire dall’esperimento mentale studiato da Erwin Schrödinger (il “gatto di Schrödinger”), che pone sullo stesso metro le possibilità attive e passive dell’infinitamente piccolo e della magnitudine. Sul piano soggettivo, poi, il modello evidenzia l’organizzazione del ritardo tra reazione neuronale e reazione corticale agli stimoli.

 

Nel suo “romanzo” della critica musicale, Il morbo di Rameau (Bologna, il Mulino, 1989), Morelli immagina i ripetuti incontri di due «perdigiorno» al Café de la Régence a Parigi. Jean-François e Pierre-Louis s’accaniscono nel sostenere differenti interpretazioni «radicali» in merito a Les Indes Galantes (1735), i cui autori, rispettivamente della musica e del libretto, sono i loro zii Jean-Philippe Rameau e Louis Fuzelier. Di volta in volta, non appena s’acquieta il tono della dotta polemica, il saggista-narratore fa emergere la voce del testo poetico. Così, nella seconda Entrée delle Indes, durante l’esotica Festa del Sole degli Incas in Perù (Fête du Soleil, scène v), l’aria di Huascar celebra l’eterna vitalità dell’astro luminoso, che s’estende oltre l’ambiguità delle stagioni, e così si conclude:

 

De la nuit le voile sombre

Sur vos attraits n’étend jamais son ombre,

Tous les temps, aimables vainqueurs,

Sont maqués par vos faveurs!

 

Nella saletta degli scacchi, dopo tante discussioni, il giovane Rameau percepisce il «giusto silenzio», quello che coglie i giocatori mentre studiano le mosse sulla scacchiera. «Il silenzio non nasce dall’arbitrio di due o più individui… il silenzio è una specie di essenza, forse un profumo. Un manto che accomuna due modalità…“d’accecamento”» (pp. 143-44).

 

Il procedimento non s’arresta ancora. Sul finire del saggio affiora la Sinfonia della stranezza di un eccentrico medico-scienziato che, vent’anni dopo la rappresentazione delle Indes, illustra agli attoniti nipoti la funzionalità di un teorema, mostrando loro una macchina azionata dal «movimento coordinato di due gattini» (p. 231). La macchina della volontà, sperimentata analizzando nuclei di malati, svela l’esistenza di una terza facoltà, oltre la obstruens e la dirumpens. Essa è «un’anima capace di essere un modulo convertibile. (Convertibile in male, in altro, in meglio)», in grado d’attivare «nuove realtà». Così è per l’opera di Rameau, genio ammalato da «febbri» patologiche e dalle smanie del secolo dei lumi: le Indes sono un capolavoro che oltrepassa di gran lunga il dualismo tradizione/rinnovamento. Insomma, se si va al di là del testo, si comprende come l’arte affondi le radici nella «compromissione neurologica» dell’artifex, ovvero nelle «folgorazioni» figurali dello «spazio-tempo unitario nello spazio-tempo esploso e viceversa» (p. 249).

 

In tal senso vale altrettanto bene sfogliare lo studio di Morelli Musica e malattia (in Enciclopedia della musica, II, Il sapere musicale, Torino, Einaudi, 2002). Ovvero, per i musicisti «grandi-malati» l’affezione è «un modo di vita», definito dalla creazione di un «tempo intermedio» sottratto alla morte: «E tale tempo, è un tempo che…possiede una sola risorsa», quella di tradursi in scrittura «“terminata” prima che la morte lo interrompa» (p. 413).

 

Ogni corpo si muove entro il vortice temporale, cercando una difficile sintonia con gli altri corpi. Alcuni trovano un’interrelazione provvisoria. Una prima immagine: tre persone sedute sopra una panca, in un lungo corridoio, osservano chi passa, senza parlare. Un’altra immagine: alcuni uomini s’appoggiano al parapetto di un ponte, davanti a un rio veneziano, ritardando il saluto serale. Eppure, tra il silente scorrere del tempo è facile che s’annidi la maestria.

 

Morelli è un artefice del senso, è colui che sa accompagnare l’allievo-mai-allievo nel flusso ininterrotto della percezione. Giovani e meno giovani, studenti e colleghi, dapprima smarriti e disorientati, poi rasserenati e ridenti, hanno potuto ritrovare nella conoscenza ciclica di Giovanni Morelli un solido punto di riferimento. La magia dei suoi atti consiste nella perenne ricerca della giusta/impossibile forma. Alla base c’è il convincimento che ogni gesto deve trovare la vera configurazione, in un sistema periodico d’irradiazione e di ricomposizione.

 

Il fulcro dell’insegnamento morelliano è costituto dalla sintesi temporale di ascolto e visione (come si può comprendere dal suo ultimo libro, laddove parla dell’«insistenza narrativa nella temporalizzazione (“mise en temps”) del racconto»: Prima la musica, poi il cinema, Venezia, Marsilio, 2011, p. 25). Larghi frammenti di creatività, tratti dalla memoria del mondo, in apparenza slegati, finiscono per ricomporsi nella mente, per lo più dopo un intervallo, sempre sotto l’ala del pensiero libero, preludio a una scommessa culturale assoluta. Al pari dei suoi scritti: getti d’idee concatenate, simili a fili di un ordito lieve, aperto, aereo, eppure solido, sotto l’egida dell’utopia. O, se si vuole: «creazioni di tempi critici fra Io e Storia» (G.M., Massimo Mila, «Belfagor», 30 novembre 1989, p. 680).

 

Non a caso, nel corso degli anni Giovanni Morelli ama costruire interminabili elenchi di nomi, di opere, di frammenti, simili a filamenti che passano attraverso la cruna del tempo. Un esempio prezioso del passaggio dal concetto di forma alla non-forma è visibile nel «il diluvio di titoli classici», nell’elenco ininterrotto che accompagna la sua riflessione su Il “classico” in musica, dal dramma al frammento (in: I Greci, 3. I Greci oltre la Grecia, Torino, Einaudi, 2001).     

 

Succede, a volte, che una composizione scaturisca dalla ricerca incessante di un «tema fondamentale». Il connubio tra una scrittrice irrequieta, qual è Gertrude Stein, che nel 1926-27 scrive il play The Four Saints in Three Acts, e il compositore Virgil Thomson, che in quel periodo soggiorna al 17 del Quai Voltaire parigino, si sviluppa intorno alla validità/inconsistenza e alla «ritualità senza credenza» di un catalogo turistico-culturale (d’ambito spagnolo) della santità. A questo Morelli dedica uno straordinario studio, Very Well saints. A Sum of Deconstructions. Illazioni su Gertrude Stein e Virgil Thomson (Paris 1928), Firenze, Olschki, 2000). Da un lato s’innalza il «sistema fonologico» steiniano che prefigura con efficacia rappresentazioni di processioni, visioni, cori di santi; è un’apoteosi della ripetizione (fonetica, ritmica, di assonanze  e traslitterazioni iconiche, e altro ancora), che rammenta – come scrive il geniale musicologo – una «plasticità attraverso la iterazione» (p. 90), una miriade d’insistenze iper-realistiche, come sintesi della vita. Dall’altro si scorge un compositore altrettanto sperimentale che sceglie di «far fare a quei santi un ragtime…Sincopare, jazzare appunto». A un certo momento le strade si sovrappongono: i Four Saints non sono più in tre atti, ma in due ben diversificati, prossimi al cedimento verso un tempo limitato ad una sola giornata. Come esclama il primo coro nella prima parte (404, p. 141):

 

Ovvia ovvia ovvia che giornata

Che ben tre giorni interi

Più uno se n’è andata.

 

E, alla fine del secondo atto, in un’atmosfera notturna, si legge un’efficace sequenza, che equivale a una sintesi: «803. Sant’Ignazio si mette in riga, voltato a destra o a sinistra, di lato. 804. Ognissanti. 805. Per i santi. 806. Quatto santi. 807. e altri santi. 808. Cinque santi. 809. per gli altri santi. 809. [L’]-[u] ultimo atto. 810. che è un fatto [Silenzio]» (p. 149).

 

Finale di partita. Tra le pagine di Scenari della lontananza (Venezia, Marsilio, 2003) Morelli incide con incredibile precisione l’evanescenza dell’«immagine» di Luigi Nono, dopo-Nono, che «avvolto nel mantello là nel momento in cui ode il flebile suono quasi-un-silenzio della esperienza del sacrificio si sta dunque cancellando». Dal tempo affiora un «altro ritratto di figura in piedi non più nel lontano libro dei partages, delle sovversioni, delle prove, dei margini, delle interrogazioni, ma nel gran libro della grande Storia della musica» (p. 138).

 

Luglio 2011. L’incedere incerto, il braccio piegato all’indietro, i capelli spenti, il respiro ansante: così s’allontana verso il canale della Giudecca, un essere consapevole fino in fondo di avere un appuntamento decisivo con il tempo, un uomo sapiente e insostituibile, che ha tentato in tutti i modi di prefigurare, a sé e agli altri, le fasi della malattia e le sue soluzioni formali/materiali. In cuor suo sa che la soglia da superare è incognita, perciò attraente, come l’abisso dell’eternità e del nulla. L’andare senza fermarsi e senza dolersi mette in moto l’esorcismo delle tante vite possibili, contenute nello scrigno del tempo.

 

E adesso? Adesso… chiede silenzio.

 

 




 
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