Né lasciarsi andare al cordoglio più intenso, né sdrammatizzare a tutti i costi, bensì “trovare un rimpiazzo”, un impostore che faccia le veci del defunto: questa la singolare modalità di “elaborazione del lutto” suggerita dal greco Alpis (Alps), film in concorso realizzato del greco Yorgos Lanthimos, già nel 2009 impostosi allattenzione internazionale con Dogtooth, che gli aveva guadagnato il premio Un Certain Regard al Festival di Cannes e la nomination allOscar come miglior film straniero.
Ancora una volta il regista ateniese sceglie di raccontarci una delle sue “storie di ordinaria perversione” attraverso una vicenda surreale e angosciante, in linea con le precedenti realizzazioni dellautore. Si pensi allo stesso Dogtooth, in cui tre fratelli ricevevano uneducazione sui generis dai genitori che li tenevano segregati in casa; ma anche al precedente Kinetta (2005), che raccontava dellinquietante abitudine di due uomini di riallestire scene di violenza subita da donne.
Analogamente, in Alpis, Lanthimos ipotizza che ad essere “rimesse in scena” siano le vite di persone morte, i cui cari, non riuscendo ad accettarne la scomparsa, affidano al gruppo degli Alpis (un nome simbolico, come viene spiegato nel corso del film) il compito di vestire letteralmente i panni della persona scomparsa e imitarne gesti, parole, abitudini. Poche ma severe le regole da rispettare per far parte della bizzarra squadra di “terapeuti del lutto”: mai affezionarsi in modo morboso al defunto interpretato e alla sua vita; decidere di concerto con il gruppo quali “casi” accettare e a quale membro assegnare “la parte”; vietato lasciarsi sopraffare dal dolore per la morte dei propri cari. Attorno a questo nucleo narrativo ruota la vita privata dei componenti della squadra, ma il regista sceglie significativamente di soffermarsi solo sui ruoli femminili (uninfermiera dal difficile rapporto col padre e una ginnasta in continuo scontro con lamato/odiato allenatore), dimostrando così il suo interesse per il mondo femminile e il problematico rapporto con quello maschile, tra prevaricazione e perversione.
Sebbene pecchi di eccessiva lentezza, certo accentuata dalla scelta di una recitazione ricca di pause e come straniata, il film non manca di pregi. Lanthimos dedica particolare attenzione alla fotografia: inquadrature lunghe e fisse consentono una leggibilità dellimmagine che ne rivela la raffinata estetica, condotta attraverso giochi di focale. Spesso il vero soggetto viene relegato ai margini del quadro (magari ridotto a una sola metà del volto o alla testa inquadrata di spalle) ma perfettamente a fuoco; laddove la maggior parte dello spazio viene invece riservato allo sfondo, che però è quasi indistinguibile obnubilato da una forte sfocatura. Così, in una duplice sottrazione visiva, quanto sarebbe di primario interesse per lo spettatore sfugge uscendo dallinquadratura, mentre ciò che dovrebbe essere soltanto un supporto del vero soggetto dellimmagine - lo sfondo appunto - pur davanti ai suoi occhi, rimane anchesso inafferrabile.
Una scelta fotografica simile va di pari passo con il segno metacinematografico che contraddistingue lintera storia: gli interpreti del film recitano il ruolo degli Alpis, che a loro volta inscenano le vite dei defunti scelti. Questa sorta di gioco di “scatole cinesi”, analogamente ai contrasti di messa a fuoco che intervengono nella costruzione dellinquadratura, richiama a viva forza lattenzione e la coscienza del pubblico, impedendogli una cieca immedesimazione nella storia narrata. Del resto anche la diegesi sembra andare nella stessa direzione: la macabra e morbosa pratica di sostituzione del defunto è loccasione per tanti, continui shock inferti allo spettatore, sempre colto di sorpresa dallennesima piccola, innocua perversione in scena.
Il regista greco ordisce una sorta di ingegnosa “macchineria teatrale”, che pur originale e interessante non convince mai totalmente. Lintera pellicola si comporta come un perfetto marchingegno scenografico che sovrasta la pièce di cui dovrebbe invece essere al servizio: lungi dal darle lustro, finisce con lottenebrarla.
Se funziona perfettamente larchitettura visiva e semantica del film, tanto da sovrastare la narrazione, il tema trattato e la scelta di una vicenda paradossale e improbabile – tutti ingredienti che sulla carta andrebbero contro i favori del pubblico – vengono bilanciati dalla pacata ironia del film, che consente allassurdo di non sfociare nel ridicolo, virando bensì verso il più apprezzabile grottesco.
|
|