Accade, nellodierno teatro dopera, di assistere a regie magari illuminanti, ma dove la sagacia con cui vengono sviscerati certi nodi drammaturgici non tiene conto dellineludibile griglia preliminare che sono le ragioni della musica. Può però accadere, in casi rari e fortunati, che il regista sia un grandissimo animale da teatro e, al contempo, un musicista consapevole: è ciò che si è potuto vedere a Salisburgo, dove Christoph Marthaler – innovatore del palcoscenico tra i più discussi dellultimo ventennio, ma anche compositore militante – si è spinto a far precedere la messinscena dellAffare Makropulos da un prologo dialogato, estraneo a libretto e partitura, che getta i semi per una vera e propria drammaturgia alternativa, ma tuttaltro che dissonante, senza minimamente compromettere lequilibrio della musica.
Una scena dello spettacolo (Foto di Walter Mair)
Tornando a un lavoro di Janáček tredici anni dopo quella Katia Kabanova che, andata in scena sempre al festival salisburghese, aveva rappresentato lesito più felice di Marthaler in campo operistico (ne esiste il dvd), il regista amplia il testo in modo tuttaltro che intrusivo: il dialogo iniziale scorre sul display che servirà poi per i sopratitoli, ma le due figuranti – due personaggi aggiunti al libretto – si limitano ai gesti, senza che alcun suono esca dalla loro bocca. Ne scaturisce una dialettica tra verbalità e mutismo che non è solo altissimo teatro visivo e sottile anticipazione delle antinomie che costelleranno la vicenda (scorrere della Storia e tempo che si ferma, immortalità del canto e caducità dei suoi divi, sessualità vorace e anaffettività…): è pure un espediente per mettere subito in movimento locchio e la mente dello spettatore, riservando però la concentrazione dellorecchio alla musica che sta per iniziare.
A cosa serve tale prologo? A far sì che quanto della pièce di Karel Čapek era uscito dalla porta della riduzione librettistica rientri dalla finestra di questa messinscena. Sensibilissimo ritrattista femminile, Janáček vide nellAffare Makropulos loccasione per delineare una grande figura di primadonna che, con i suoi miracolosi trecentotrentasette anni sotto laspetto di magnifica quarantenne, consentiva dunire in un sol colpo quei quadri muliebri plurigenerazionali (suocera e nuora nella Kabanova, nonna-madre-figlia in Jenufa) che affascinavano il compositore ceco: il tema del disagio sociale conseguente a uno straordinario allungamento della vita, nevralgico in Čapek, gli interessava assai meno. Marthaler e il suo Dramaturg Malte Ubenauf recuperano invece molte battute della commedia illuminanti in tal senso, mostrando nel prologo due diverse stagioni dellesistenza, con una giovane e una vecchia – prestano loro plasticità e volto lattrice Sasha Rau e la danzatrice Silvia Fenz – che sinterrogano sui danni di unipotetica vita illimitata. Ed è lavvio duna vera e propria “altra storia”, ambientata in una casa di riposo, dove infermiera e degente sono testimoni del dramma principale.
Un'altra scena dello spettacolo (Foto di Walter Mair)
Il “campo lungo” della scenografia di Anna Viebrock, infatti, seziona lo spazio in una sorta di scatola scenica una e trina, delimitata a sinistra da un ambiente sottovetro, chiamato a evocare lasepsi dellospizio, e a destra da una stanza di piante sempreverdi, allusione alla natura evergreen della protagonista. Al centro, al posto dellambientazione di volta in volta prevista dal libretto, unaula di tribunale: memento della causa giudiziaria – «laffare Makropulos», appunto – che si trascina da generazioni, nonché surrogato per sintetizzare lo studio legale del primo quadro, il backstage del Teatro dellOpera del secondo (cosè un tribunale se non un grande teatro?) e lalcova clandestina del terzo (in ogni processo il voyeurismo incalza). Ne sortisce un grottesco ora frenetico – la maliarda pluricentenaria e il barone infoiato emergono seminudi dai banchi dellaula giudiziaria – ora doloroso: anche se langoscia si stempera in sorriso nellimmagine finale, quando la vecchietta ricoverata, data per morta, riappare allimprovviso, proprio mentre la diva si congeda dalla scena e dalla vita rinunciando a giovinezza e immortalità.
Tra i grandi direttori di oggi, Esa-Pekka Salonen è forse quello che con la musica di Janáček ha il rapporto più empatico e proficuo. Il suo gusto per lanalisi dei dettagli, la scomposizione della forma, lasciugamento delle grandi campate per giungere allessenza della musica – insomma la sensibilità più per la funzione “logica” che per la funzione “retorica” degli elementi di una partitura – in altre occasioni ha limitato la sua bacchetta sotto il profilo dellabbandono al canto; tuttavia, il maestro finlandese non dimentica che nel Makropulos la protagonista è un soprano – o, meglio, ha attraversato vari secoli incarnandosi in più soprani – e la vocalità non è un elemento periferico, ma la raison dętre della sua spinta verso leternità. Il risultato è una felice sintesi tra il talento anatomizzatore dun direttore di tecnicismo altissimo e una caleidoscopicità dellarco canoro insospettabile in unopera dove le effusioni liriche sono, effettivamente, ben poche: un esito, peraltro, che non sarebbe stato possibile senza un cast adeguato.
Un'altra scena dello spettacolo (Foto di Walter Mair)
Sotto questo profilo, se Laffare Makropulos ha bisogno innanzi tutto duna protagonista carismatica va pure detto che, sullaltare di tale carisma, si è spesso sacrificata la qualità del canto: più volte il ruolo di Emilia Marty, alias Elina Makropulos, è stato appannaggio di primedonne sul viale del tramonto, talentosissime ma esizialmente appannate per incarnare una figura di soprano leggendario. Angela Denoke sarà meno carismatica di altre colleghe: però la voce è sana, duttile, non troppo ricca di colori ma debitamente contrastata; e sotto il profilo scenico – proprio come leroina di Janáček, trecentotrentasettenne per età biologica, tuttaltro che per aspetto – ha la carnalità della donna matura ma ancor giovane, senza bisogno di affettazioni. A sua volta Johan Reuter, nella parte del barone, dimostra come, anche in una scrittura lontana dal tradizionale canto spiegato, una densa e flessibile voce di classico baritono possa farsi valere. Più a disagio il Gregor di Raymond Very, cui spetta la vocalità meno sperimentale (il tipico tenore “spinto” di tanti melodrammi darea verista), ma laffronta con disagio quanto a intonazione e fermezza di suono.
Un'altra scena dello spettacolo (Foto di Walter Mair)
Fanno meglio gli altri tenori, chiamati a un impegno minore ma non trascurabile: Aleš Briscein, con la sua voce lirica e delicata, offre un bel ritratto canoro della fragilità di Janek, destinato a soccombere davanti al vitalismo del padre; mentre Peter Hoare si rifugia nel piccolo personaggio di Vitek, ma il suo soliloquio nel primo atto mette in luce una voce interessante, che si potrebbe impiegare in ruoli di maggior spessore. Tutto il contrario del veterano Ryland Davies, che ai suoi bei dì, quando affrontava protagonisti mozartiani e donizettiani, convinceva solo in parte, ma da anni si è trasformato in caratterista di razza: il suo Hauk-Šendorf, decrepito ma non immemore dei brividi della carne, aggira il rischio della caricatura e porta un brivido di dignità e sofferenza, ricordandoci come anche la parte conclusiva della parabola di Janáček ondeggiò tra senilità e richiamo dei sensi. Più macchiettistici, ma di gran talento, il debordante mezzosoprano Linda Ormiston (che la riscrittura di Marthaler e Ubenauf chiama ad assemblare più ruoli ancillari previsti dal libretto) e il baritono Jochen Schmeckenbecher: un principe del foro nevrotico e divorato dai tic.
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