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Oltre la sottile linea rossa

di Luigi Nepi
  The Tree of Life
Data di pubblicazione su web 26/06/2011  

Ogni volta che Terrence Malick torna dietro alla macchina da presa è un evento: cinque film in quasi quaranta anni di carriera ne fanno un caso unico tra gli autori contemporanei, come, d’altra parte, il fatto che gli ultimi tre siano stati prodotti in “soli” tredici anni, rivela un’urgenza di esprimersi che travalica le ormai proverbiali e quasi patologiche riservatezze del regista. Contrariamente all’uomo, però, il Malick regista non si nasconde mai, a partire dai titoli delle sue opere sempre tanto espliciti quanto evocativi: La rabbia giovane (per una volta una traduzione libera quasi più efficace dell’originale Badlands), I giorni del cielo, La sottile linea rossa, The New World e, adesso, nientemeno che The Tree of Life, ed è proprio “l’albero della vita” che Malick ci mostra.

Apre il film la trascrizione di quattro versetti di Giobbe (38, 4-7), nei quali Dio sfida l’intelligenza dell’uomo a dare un senso all’inizio dell’universo (“Dov’eri tu quando io fondavo la terra? Dillo, se hai tanta intelligenza”), quindi si intravede una luce indefinita, sfuocata: parola e luce. L’incipit di Malick è lo stesso del Vangelo di Giovanni, che, se da un lato ribadisce il senso di un titolo così forte ed impegnativo, dall’altro individua la prima delle tante dicotomie che compongono questo film: parola e luce, voce e immagini, grazia e natura, ragione e istinto, trascendente e immanente, fede e scienza, ma anche lingua e linguaggio, fabula e intreccio… queste sono solo alcune delle contrapposizioni che emergono dalla visione e dalle visioni di The Tree of Life.




Malick sembra raccogliere la sfida di Dio a Giobbe e compone un’opera scientificamente sacra, in cui l’individuazione del divino passa dall’evidenza logica che il trascendente (ovvero ciò che è aldilà delle umane categorie di riferimento quali lo spazio e il tempo) esiste, e tutto è governato da un’imperscrutabile quanto perfetta casualità. Malick, al pari di Courbet, riproduce e metaforizza l’origine del mondo in un susseguirsi di galassie e immagini sperimentali che rimandano direttamente a quelle ormai storiche di Stan Brakhage; non c’è alcun “progetto divino” nella cosmogonia del regista di Waco, all’interno della quale viene individuato nell’inaspettato e imprevisto avvento della grazia sulla natura ferina (la pietà che il dinosauro prova verso un altro dinosauro ferito), il momento in cui, nell’evoluzione della vita sulla terra, si innesta il germoglio della possibilità di una forma di esistenza che cessi di “compiacere solo se stessa” e che sia consapevole anche dell’altro da sé.

In questa sublimazione della visione c’è posto anche per una traccia di racconto che vede protagonista una famiglia americana in un paesino indefinito del Texas tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, questa famiglia viene chiamata ad affrontare la più inspiegabile delle prove: la morte di un figlio diciannovenne. Il tutto viene rivissuto attraverso la lente deformante del ricordo fatto quasi quarant’anni dopo dal fratello maggiore (Sean Penn). Ogni membro della famiglia assume su di sé un forte potenziale metaforico: nelle dicotomie che caratterizzano il film i due piccoli fratelli (tra cui spicca l’efficacissimo ribelle Hunter McCracken) richiamano le dinamiche bibliche tra Caino e Abele; la madre (un’eterea Jessica Chastain) incarna fin da subito la “grazia”, ovvero quello stato esistenziale “alto”, che trova la sua essenza più profonda nel rapporto con gli altri, mentre il padre (un Brad Pitt che compendia nel suo personaggio tutti i registri espressivi attraversati nei suoi ultimi film) rappresenta, inevitabilmente, la “natura”, nella sua forsennata ricerca del successo personale, che condiziona in modo devastante il suo rapporto con i figli, ai quali impone un’educazione ferrea e totalmente improntata all’autoaffermazione nella società. In molti hanno voluto vedere in questo episodio un elemento autobiografico, ma basta spostarsi poco più avanti nella lettura del libro di Giobbe che troviamo l’origine più probabile dell’ispirazione del personaggio del padre: “Lo struzzo (…) tratta duramente i suoi piccini, quasi non fossero suoi; la sua fatica sarà vana, ma ciò non lo turba, perché Dio l'ha privato di saggezza, non gli ha impartito intelligenza” (Giobbe 39, 13-17).




The Tree of Life è un film estremamente complesso, che non si cura né della coerenza narrativa, né di quella stilistica, si alternano immagini altamente sofisticate e ricche di effetti speciali (l’episodio dei dinosauri), con altre iperrealistiche o che sembrano provenire direttamente da La rabbia giovane; il racconto, invece, risulta smembrato, a tratti incomprensibile, ma ciò lo rende paradossalmente coerente con la casualità con cui Jack adulto ricostruisce il ricordo della sua famiglia. A quasi settanta anni Malick sente la necessità di una completa ridefinizione del testo filmico e compone un’opera fortemente e volutamente nuova, con un coraggio che, in questi anni, forse solo l’ottuagenario Monte Hellman con il suo Road to Nowhere ha dimostrato di avere: da entrambi questi film si esce, infatti, con gli occhi pieni di immagini e i pensieri pieni di dubbi.

“Oh anima mia, fa che io sia in te adesso, guarda attraverso i miei occhi, guarda le cose che hai creato. Tutto risplende.” Con queste parole terminava La sottile linea rossa, quella stessa linea rossa che, per Kipling, divide “la lucidità dalla follia”, e che Malick, con The Tree of Life, ha decisamente superato.

 

The Tree of Life
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