Se in Italia cè ancora qualcuno che chiama “Dozzinetti” lautore del Don Pasquale non sarà il caso di alzare la voce se, nella natia Germania, Albert Lortzing resta confinato tra i compositori di secondo piano. I pregiudizi verso linclinazione al comico, la prolificità creativa e tutto ciò che, storicamente, sa di “zona di passaggio” (tra Rossini e Verdi nel caso di Donizetti, tra Weber e Wagner in quello di Lortzing) hanno circoscritto questautore nel territorio autoctono e domestico della Volksoper, dei palcoscenici minori, del pubblico di bocca buona: dimenticando quanta sapienza costruttiva affiori tra le pieghe della sua orecchiabilità, e quanto si guadagnerebbe se quei tenori leggeri, quei baritoni brillanti, quei bassi comici scatenati che popolano il gran teatro del mondo lortzinghiano avessero il “legato” del grande tenore, lespansione del grande baritono, la rotondità del grande basso.
Foto di Andreas Birkigt
A Lipsia – dove leclettico Lortzing lavorò come tenore, attore e Kapellmeister – si è avviato, dalla scorsa stagione, un progetto pluriennale attorno alle sue opere: e, a conferma che Lortzing non siede alla mensa dei ricchi, la sede deputata non è la grande Oper Leipzig, ma la più popolare e periferica Musikalische Komödie. Tuttavia, al contrario di quanto avviene in altre città tedesche con i palcoscenici specializzati nellopera buffa e nelloperetta, a Lipsia questo spazio non è una realtà minore, ma una costola della programmazione del principale Teatro dellOpera. Il fatto che si tratti di una sala incompiuta (del progetto architettonico originario si è riusciti a realizzare solo una parte della platea) sottrae forse qualcosa in termini acustici, ma non toglie suggestione, anzi il contrario; ed è un grande esempio di civiltà per noi italiani, che viviamo in un paese dove i teatri vengono chiusi senza rimpianti, vedere il pubblico lipsiense versare svariati euro allinterno del modellino plastico che mostra come sarebbe la sala ultimata, per propiziare la ripresa dei lavori.
Foto di Andreas Birkigt
Der Waffenschmied, ovvero Larmaiolo, rappresenta lattuale capitolo del progetto Lortzing a Lipsia, ed è opera che più di altre rischia dessere equivocata, sul piano esecutivo come su quello della ricezione. È un Lortzing ormai tardo (se è lecito usare questaggettivo per un autore che non arrivò ai cinquantanni), del 1846: Wagner non ha ancora attuato la propria rivoluzione copernicana ma ha già scompaginato molti parametri, per la sorridente e accomodante komische Oper di antica memoria cè sempre meno posto. Il sapore è quello di una rimpatriata, arguta ma disincantata, fuori tempo massimo: un po come per il Rossini del Conte Ory, ultimo colpo di coda nel buffo quando le esperienze e la sensibilità lavevano fatto approdare verso altri lidi. Similmente Lortzing – reduce dal romanticismo “fatato” di Undine, e pronto a tentare ulteriori nuove strade nei pochi anni che gli restavano da vivere – torna con Larmaiolo al suo amato e declinante genere comico-conversativo: ma con una manciata di malinconia crepuscolare in più (il protagonista è, come Don Pasquale, un vecchio perdente, e il suo Lied conclusivo appare davvero il bilancio di unesistenza) e una capacità dintroiettare nellopera buffa gli stilemi romantici che si direbbe discendere anchessa da Donizetti.
Questa messinscena alla Musikalische Komödie, tuttavia, non sembra incline al versante malinconico-intimista. La regia di Stefan Petraschewsky privilegia soprattutto gli aspetti comici, con trovate surreali divertenti, anche se non sempre ben amalgamate con il disegno drammaturgico complessivo: la visualizzazione della sinfonia, con un Adamo e una Eva cavernicoli che scoprono la pietra focaia (il fuoco, strumento di lavoro dei fabbri armaioli, sarà spesso presente in scena), sembra uscire da La pazza storia del mondo di Mel Brooks; e dà luogo a gag molto simpatiche fare dellorrenda signorina Katzenstein – figura che non compare mai, ma inquietante presenza-assenza che rischia di rompere le uova nel paniere ai due innamorati – una gattona di peluche con cui si baloccano gli altri personaggi (Katze, in tedesco, vuol dire gatta).
Foto di Andreas Birkigt
A dare gradevolezza allimpaginazione visiva dello spettacolo contribuiscono i costumi diacronici – dal sedicesimo secolo previsto dal libretto a echi vittoriani ad abbigliamenti genericamente moderni – di Annette Braun e le scene, tra il fumetto e il cartone animato, di Paul Zoller, mentre la drammaturgia di Marita Müller sembra scorrere su un binario parallelo. Oltre a manipolare abbondantemente le parti recitate (Lortzing si mantenne fedele allantico schema dei dialoghi parlati in luogo dei recitativi musicati), la riscrittura sposta il baricentro dellazione verso il personaggio di Marie, facendone lo specchio di quegli impulsi libertari che, dietro la facciata Biedermeier, erano tuttaltro che estranei a Lortzing. Ne scaturisce una lettura femminista: qui – proprio al calar del sipario – la ragazza, scoperto che il suo innamorato e il misterioso corteggiatore erano la stessa persona, lascia il fidanzato, offesa che abbia ordito una simile macchinazione per metterla alla prova. Se si pensa alla vis da suffragetta che ha laria di Marie nellultimo atto, non è un finale peregrino: appare però dissonante con quel messaggio damore – tra uomo e donna, ma anche tra tutte le persone – su cui Der Waffenschmied si chiude e che rappresenta il tema musicale, affidato sia al baritono sia alla sola orchestra, più ricorrente dellopera.
Foto di Andreas Birkigt
Il cast risponde solo in parte allauspicio, accennato allinizio, che il “minimalista” Lortzing sia affidato a voci di spessore. Spicca, in perfetta coerenza con la riscrittura drammaturgica, la Marie della giovane Jennifer Porto: lirica per impasto vocale ma intensa per fraseggio, a suo agio nei momenti spiccatamente vocalistici come nel recitar cantando – fuori da ogni schema prestabilito – del soliloquio che chiude il primo atto, e anche di bella presenza scenica. Gli altri sono più fragili, ma allinsegna della professionalità e spigliatezza. Lortzing, come in altre sue opere, manipola un lessico istituzionalizzato: qui lamoroso è baritono, non tenore; mentre a questultimo spetta un ruolo drammaturgicamente da caratterista, arricchito però da due Lieder (il secondo con interventi del coro) che hanno rappresentato pane per i denti di grandi tenori tedeschi. Luno è Morgan Smith, che ha – se non il peso – almeno la morbidezza richiesta dalla scrittura vocale, e appare simpaticamente disinvolto sia quando indossa i panni fittizi del garzone di bottega sia quando si riappropria della veste del Conte di Liebenau. Laltro è Sebastian Fuchsberger: i due momenti solistici vengono onorati senza preziosismi, ma riesce a ricavare un vero personaggio da quella sorta di Sancho Panza con affondi comico-sentimentali che è lo scudiero Georg. Alla fine il meno a fuoco è proprio larmaiolo eponimo, perché il volenteroso Steffen Rössler ha voce e personalità di taglia non protagonistica, e soprattutto laspetto crepuscolare del ruolo fatica ad emergere.
Carolin Masur e Milko Milev colgono bene le ascendenze rossiniane dei loro personaggi (la vecchia zitella Irmentraut canta unaria brontolona in stile Il vecchietto cerca moglie, mentre il Cavaliere Adelhof, che appare sempre nei momenti meno opportuni, è un Don Basilio più azzimato ma altrettanto venale): la prima, forse, ha un registro di petto un po debole per una parte da autentico contralto comico; il secondo affianca, alla verve del commediante, una voce di basso da tenere a mente. Andreas Rainer offre il suo ottimo mestiere di artista da operetta alla figura delloste Brenner, il cui impegno canoro si riduce al settimino dellultimo atto e, per il resto, si sostanzia in lunghi interventi recitati. Tutti ben coordinati dalla bacchetta di Stefan Diederich: attento soprattutto allinvolo melodico ma capace di far delibare tutte le finezze dellarchitettura compositiva di Lortzing, e ben servito dallorchestra, leggera e frizzante, della Musikalische Komödie.
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