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Homo homini lupus

di Gianluca Stefani
  Due Lupi
Data di pubblicazione su web 10/06/2011  

Coi Lupi non si balla. Al limite si riflette. Ispiratosi a un bel racconto di Agota Kristof dal pessimo titolo italiano, Il Grande Quaderno, con la sua ultima fatica il coreografo Virgilio Sieni ci parla di esistenze licantropiche, di guerra, di vita e di morte, attraverso un modello linguistico di danza che per certi versi è una non-danza. Danza basata sulla sperimentazione motoria sul corpo. Scrittura, secca, sulla pelle. Filosofia.   

 

Quando sfugge alla retorica della rarefazione compiaciuta, la poesia performativa di Due Lupi funziona. Merito dell’espressività a tuttotondo delle gemelle Luisa e Silvia Pasello, ai cui corpi asciutti e severi la chirurgica partitura dello spettacolo si affida interamente. Corpi che si fanno mappe, planisferi morfologici di singole fasce muscolari e nervi in contromovimento, significanti e magnetici. Corpi speculari che sembrano uno. Che agiscono in millimetrico sincronismo, come separati da uno specchio che non si vede. È il tema del doppio, vecchio quasi quanto il teatro. Qui complicato dall’esatto unisono delle voci narranti, e, in ultimo, dal raccordo della parola recitata al gesto e all’azione, in un gioco a effetto vibrante.

 

Nelle quattro scene che cadenzano lo spettacolo, il racconto della Kristof fila via spedito, distillato in piccoli incisi ripetuti dalle attrici più e più volte, lungo le tre età dell’uomo, bruciate in un soffio. Dalla giovinezza alla maturità alla vecchiaia, piccole donne crescono all’ombra di un carro armato (sineddoche della guerra, la Seconda Mondiale, una qualsiasi). Imparano a difendersi dal mondo, si esercitano contro la fame, il freddo, il dolore fisico. Diventano specie di lupi. Puzzano come lupi. Dei lupi, acquisiscono la crudeltà, la temerità. L’indipendenza dagli altri. Col tempo, imparano a non aver bisogno che di sé stessi e della propria metà. Nel finale, nemmeno più di quella (quando la sopravvivenza imporrà la separazione).

 


Luisa e Silvia Pasello

 

Ciò che più colpisce dell’allestimento di Sieni è il buio fondo che divora lo spazio. Si fa fatica a distinguere i pochi elementi di scena: un drappo nero velato che scende dall’alto e funge da quinta, il monolitico carro armato nascosto dietro la tenda e scoperto poco a poco dalle attrici, a ogni cambio di scena, quasi in una graduale coscienza degli orrori del mondo. In questo non-spazio privo di coordinate, che richiama il nulla di un paesaggio postatomico, i corpi delle Pasello emergono con la luce, ora più accesa ora illividita, come apparizioni rubate da tele caravaggesche. I loro volti, magrittiani o dechirichiani, tumulati dietro fazzoletti infiorati o trasparenti, sono maschere anche quando liberati della maschera, vuoti simulacri che rimandano al proprio doppio. Sono manichini, ombre imperscrutabili cui la “danza” ispira vita.

  

La duplice metamorfosi delle protagoniste – in lupi e in vecchi – passa attraverso il movimento danzato, veicolato dal costume. Nella prima scena, con indosso agili fuseaux e a piedi nudi, gli esercizi ginnici eseguiti dalle Pasello assomigliano a numeri di nuoto sincronizzato. Dopodiché, ingolfati dagli abiti già adulti, coi fazzoletti colorati in testa e le scarpe col tacco basso, i loro gesti si appesantiscono, sospesi tra maldestri tentativi di voli da terra e brusche ricadute al suolo. Infine, in un rapido trapasso involutivo verso l’abbrutimento e la decomposizione, nella terza scena la luce scruta e quasi viviseziona i corpi scheletrici di vecchine barcollanti, ritte su bastoni o accartocciate sul pavimento in preda agli spasmi, i capelli canuti raccolti a cipolla, le vocine chiocce come quelle dei bambini. Sequenze di tensione horror, segnate dall’esplosione dello Stabat Mater di Dvořák.

 


Scena finale di Due Lupi

 

Si entra così nella quarta e ultima scena. Le gemelle-lupo, prostrate a terra, si rialzano. Si strappano la parrucca gettandola via. Indietreggiano, liberano definitivamente il carro armato dalla protezione del drappo, quasi fosse un totem, un Crocifisso da scoprire durante una funzione di Venerdì Santo. Lo trascinano innanzi, ci montano sopra come il bambino nel finale del film premio Oscar di Benigni. Ma qui non c’è ottimismo atteggiato a speranza. Le due protagoniste alzano al cielo uno scheletro di cervo, vittima sacrificale da immolare sull’altare di Marte, vittima di tutte le vittime che la guerra, le guerre, producono. No, per Sieni la vita non è bella. La vita-bella è una menzogna crudele che ci hanno raccontato gli uomini. Dal venditore di almanacchi in poi.


Due Lupi
cast cast & credits
 
 
 
 
 
 
 
Luisa e Silvia Pasello
nel nuovo spettacolo di
Virgilio Sieni 





 
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