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Tra noir, war movie e cinegiornale: l’Algeria secondo Rachid Bouchareb

di Elisa Uffreduzzi
  Uomini senza legge
Data di pubblicazione su web 10/06/2011  

Algeria 1925: sullo sfondo del Paese oppresso dalla colonizzazione francese, si apre Uomini senza legge, il nuovo film di Rachid Bouchareb, regista francese di origine algerina, particolarmente attento al tema dell’immigrazione.

La prima inquadratura è un totale su un arido campo arato in cui si perde la figura di un uomo, caparbiamente chino a raccogliere una ad una le pietre che lo ingombrano: una metonimia di quella stessa ostinazione con cui durante tutto il film i tre fratelli che ne sono protagonisti lotteranno per un ideale, quello dell’indipendenza dell’Algeria, mettendo in gioco la propria vita e finanche il proprio legame di sangue. Persa proprio in quel 1925 la casa e la terra che li hanno visti nascere, separeranno le proprie strade, divenendo Saïd (Jamel Debbouze) un piccolo malvivente di Pigalle, Messaoud (Roschdy Zem) un soldato dell'esercito francese impegnato nella prima guerra d'Indocina (1946 - 1954) e Abdelkader (Sami Bouajila) un leader del partito dell’FLN, il Fronte di Liberazione Nazionale in lotta per l’indipendenza dell’Algeria – che arriverà solo nel 1962. Si ritroveranno all’ombra della Tour Eiffel, uniti nella lotta al dominatore gallico.

Presentato in concorso alla 63ª edizione del Festival di Cannes e candidato agli Oscar 2011 come miglior film straniero, il lungometraggio in Francia ha suscitato infuocati dibattiti, a causa dei delicati temi trattati, come già Indigènes, dello stesso regista, premiato a Cannes nel 2006.




Sul piano narrativo Bouchareb riesce ad evitare il rischio di cadere nella trappola della glorificazione incondizionata dei protagonisti: pur essendo “di parte” non risparmia ai personaggi principali le proprie colpe, dai delitti efferati di cui si macchiano, alla perdita della propria coscienza, “dell’anima”, in nome di un presunto ideale più alto – come più volte rinfaccia Messaoud ad Abdelkader. È l’atavico conflitto tra le ragioni del dovere (di portare avanti la lotta per l’indipendenza) e quelle del cuore (la coscienza che avverte il peso delle turpi azioni commesse)  ad attanagliare i protagonisti di questa vicenda, interpretati da un cast la cui recitazione “scolastica” si adatta perfettamente a un film che strizza l’occhio alle grandi produzioni hollywoodiane.

Se da un lato sono chiaramente riconoscibili i tratti distintivi del noir in piena regola – dall’inchiesta alla base del plot (quella condotta dal Colonello Faivre, interpretato da Bernard Blancan), all’ambientazione cittadina nella Parigi degli anni Cinquanta, ai forti contrasti di luce e ombra –  dall’altro si distinguono altrettanto nitidi i connotati del war movie – le scene di guerra (quelle ambientate in Algeria, ma anche quelle relative al fronte Indocinese); i colori sbiaditi dalla polvere, le tranches de vie in trincea, la retorica del soldato (Messaoud) che torna a casa con un’esistenza completamente da ricostruire.

In una struttura diegetica siffatta i personaggi femminili sono poco più che rare sagome di contorno, dalla moglie di Messaoud, quasi muta per tutto il film, alla bionda Hélène, prima corriere e poi effimera amante per Abdelkader. Spicca soltanto l’icona della madre (Chafia Boudraa), non tanto o non solo perché quantitativamente più presente sulla pellicola, ma piuttosto per la funzione catartica che assume rispetto alle figure dei tre fratelli: in lei si riassumono metaforicamente le ragioni della terra d’origine e del conflitto per l’indipendenza, poste a giustificazione della discutibile condotta dei figli e a lei come a un padre spirituale, un Messaoud consapevole e pentito, confesserà gli orrori di cui si è macchiato.




E’ forte l’attenzione al montaggio interno dell’inquadratura: Bouchareb gioca con le figure sullo sfondo, che spesso inizialmente appaiono fuori fuoco opacizzate da un forte effetto flou, mentre una figura o un volto in primo piano perfettamente a fuoco catturano l’attenzione e lo sguardo dello spettatore. Quindi in un secondo momento focalizza anche lo sfondo, cosicché si ottiene un’inquadratura complessa, articolata in più piani, in cui l’acquisita profondità di campo veicola nuove informazioni visive e narrative al tempo stesso. Ne consegue una durata del singolo frame sufficientemente dilatata, senza per questo eccedere dai canoni del découpage classico.

Sia nel corso del film che nel finale compaiono degli inserti tratti da cinegiornali relativi alla guerra franco-algerina. Il bianco e nero che li distingue, lungi dal suscitare uno shock visivo, come sarebbe ragionevole aspettarsi, si inserisce senza soluzione di continuità nella coloristica del film. Christophe Beaucarne fonde infatti perfettamente in una fotografia multiforme le luci fortemente contrastate del film noir, il cachi delle scene di guerra e il bianco e nero soffuso dei cinegiornali, senza far avvertire un forte scarto tra i vari stili. Nel finale ricorre al colore in funzione simbolica: sprazzi cromatici intervengono sul bianco e nero dei cinegiornali dell’indipendenza algerina, illuminando di volta in volta una diversa sezione della bandiera nazionale. Un espediente fotografico che se non è nuovo (lo avevano già usato in funzione allegorica Steven Spielberg in Schindler’s List, 1993 o Edgar Reitz nella saga di Heimat, 1984-2004 per citare alcuni esempi), in questo caso importa nella misura in cui funziona da memento per lo spettatore: a ribadire che quella narrata sullo schermo è sì una finzione, ma non lo sono l’indipendenza di un Paese né il movimento di lotta necessario al suo conseguimento.




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