Fergus (Mark Womack) è stato un contractor (una sorta di mercenario) a Baghdad, durante lultima guerra e quando muore il suo amico fraterno Frankie (John Bishop), rimasto ucciso sulla Route Irish del titolo originale, non crede agli emissari dellorganizzazione per la quale avevano lavorato entrambi. Qualcosa non torna nella versione dei fatti che gli viene propinata. Intraprende quindi una vera e propria inchiesta, che ben presto sfocia nella vendetta personale. I destini dei due amici si intrecciano tra passato e presente fino a sovrapporsi, tanto che Fergus finirà per avere una tormentata relazione con la moglie-vedova dellamico. Crederà di aver sciolto lenigma, per poi scoprire che, forse, la realtà è unaltra…
Con L'altra verità (Route Irish) il regista britannico Ken Loach ripropone gli stilemi tipici della sua personale maniera di fare cinema: dai protagonisti, presi in prestito da un proletariato inglese allo sbando; alle atmosfere plumbee e allespediente narrativo dellambientazione parallela tra un Paese teatro di guerra da un lato e il Regno Unito dallaltro (come già aveva fatto in Carla's Song, 1996, ad esempio).
Stavolta la guerra è quella dellIraq e come già in Terra e libertà (1995), il racconto delle scene del conflitto avviene attraverso ripetuti flashback, che intervengono come squarci nella narrazione, anche dal punto di vista visivo: cambia sensibilmente la grana della fotografia (Chris Menges), che assume i connotati del reportage di guerra, facendosi più sgranata e virando su una luce giallastra, in netto contrasto con quella grigio-azzurrina e più nitida delle scene collocate nella Liverpool contemporanea. Grazioso lindugio calligrafico che apre e chiude il film sullacqua grigio-piombo del fiume Mersey vista in plongée dalla poppa del traghetto che lo attraversa.
Lo stile del découpage ricalca le linee di un film dazione “Hollywood style”: una formula vincente nel binomio con la fotografia mai completamente limpida del quadro. In questo modo infatti la verità “sgranata” dellimmagine viene incanalata nel ritmo serrato dellaction movie, creando così un giusto equilibrio tra finzione e ispirazione documentaristica.
Loach si attesta ancora una volta sul cinema dimpegno civile, richiamando tematiche universali come il dramma delle popolazioni oppresse dal conflitto e parallelamente quello di un proletariato urbano inglese in lotta per la sopravvivenza economica in una società disordinata, che lo relega ai margini. La denuncia di una realtà spesso taciuta perché troppo scomoda – stavolta quella delle organizzazioni di sicurezza private che agiscono senza regole nei territori in guerra – trova spazio ancora una volta sulla pellicola firmata da Loach.
Al regista, nonostante il rigore formale e limpostazione scarna da film-inchiesta, è forse imputabile un certo sentimentalismo latente, cui non è estranea la sceneggiatura a tratti retorica di Paul Laverty, che conferma qui il sodalizio artistico con il regista. Anche lo sdegno di Frankie di fronte alluccisione di due civili innocenti durante lazione che dà linnesco allintero film risulta poco convincente: un contractor abituato al contesto selvaggio e sregolato della guerra irachena che si scandalizza per la morte di due civili innocenti, non è verosimile.
Rispetto al cinema precedente del regista britannico diminuisce lo spazio dedicato al proletariato urbano, a favore di quello riservato al contesto di guerra. Peccato, perché Loach dà il meglio di sé proprio quando si dedica al microcosmo della classe operaia, per lui abituale oggetto di osservazione; mentre laddove si discosta dai personaggi che conosce meglio e dalla loro piccola realtà, corre il rischio di cadere nello stereotipo e nella generalizzazione. Lo salvano senza dubbio la maniera scarna della regia e il merito di ostinarsi nel cinema di denuncia in tempi, come questi, in cui la libertà dinformazione è tuttaltro che scontata.
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