Quando un teatro importante affida unopera di repertorio a un regista generalmente considerato davanguardia, è segno che vuole qualcosa di nuovo, di diverso, di creativo, magari con punte di audacia e, laddove possibile, di provocazione. Quando lopera in questione è Turandot, titolo di strarepertorio e prediletto per allestimenti in genere disneyano, questo desiderio da parte della committenza mi pare particolarmente chiaro. Uno dei motivi di interesse per la Turandot in cartellone nella stagione 2010-2011 della Scala era quindi la regia di Giorgio Barberio Corsetti, figura di spicco del teatro davanguardia a livello internazionale, autore poi di una delle migliori produzioni liriche degli ultimi anni (la splendida, ipertecnologica Pietra del paragone coprodotta dal Théâtre du Châtelet di Parigi e dal Teatro Regio di Parma nel 2006-2007). La collaborazione con i protagonisti del teatro contemporaneo è del resto uno degli elementi caratterizzanti della gestione Lissner del teatro milanese, e ha portato alla Scala le regie di Dante, Nekrosius, Fura dels Baus, Martone, Kentridge, Cassiers, solo per fare qualche nome. Gli esiti sono stati alterni, ma almeno per le produzioni della Scala si è tornato a discutere di teatro (a volte in modo acceso, come nel caso della Carmen del 2009), e a sentirsi così un po più vicini a quei paesi in cui non si ha paura di confrontarsi con la tradizione anche con pizzico di salutare irriverenza.
Un momento dell'opera
Stavolta, però, qualcosa non ha funzionato. Corsetti sostanzialmente non ha preso posizione; non ha impostato la sua regia prendendo una distanza “critica” dallopera, né esplicitando sottotesti e sottintesi finora inesplorati della vicenda. Né ha scelto lopzione del lavoro minuzioso sugli attori, né, come era ovvio attendersi, della decorazione fastosa. Per che cosa ha optato allora? Difficile da dire. Cera un po della Cina delle favole, ma con poche sete e ori, pochissime pagode e niente draghi (scene e costumi di Giorgio Barberio Corsetti e Cristian Taraborrelli). Cerano momenti di distanza “critica”, il divertente siparietto di Ping, Pang e Pong nel secondo atto con proiezioni chroma key, e quello meno felice nel primo quadro del terzo, ma erano brevissimi, oltre che evidenti ricicli dalla Pietra del paragone. Cerano poi un po di saliscendi delle scene (la Scala, si sa, ha dotazioni tecniche di primordine), un po di proiezioni sul fondale, la luna-volto di Turandot nel primo atto, cieli cupi negli altri due (videoproiezioni di Pierrick Sorin). Cerano infine una manciata di mimi e acrobati circensi allorientale (coreografie di Ricky Sim). Ma nessuno di questi aspetti costituiva il perno dellallestimento. Insomma, gli spunti erano tanti, troppi forse, e fatalmente il loro impiego è stato episodico: ovunque un po di tutto. La mia impressione, alla fine, è stata quella di una regia poco convinta, che ha messo in fila pezzi di routine operistica chic, senza fare mai una scelta. E così facendoci rimpiangere persino le Turandot nazionalpopolari più spudorate, dove il Kitsch esagerato può almeno indurre sospetti di inopinate “genialità” del tipo: «ma non sarà mica tutto “tra virgolette”?».
Meglio la parte musicale, soprattutto la direzione di Valery Gergiev che, sebbene non esente da difetti di coordinazione tra buca e scena, ha ottenuto dallorchestra e dal coro della Scala nella loro forma migliore un suono spettacolare: mai nella mia memoria avevo sentito un Puccini così modernista, scintillante e spietato. A questo scopo Gergiev ha messo in sordina le sfumature sentimentali della partitura: almeno lui una scelta chiara ha avuto il coraggio di farla.
Meno uniforme la prestazione dei cantanti. La migliore della serata è stata senza alcun dubbio Ekaterina Scherbachenko (Liù), interprete perfetta dal punto di vista vocale, musicale e scenico: a lei e al direttore sono andati i maggiori consensi del pubblico. Lise Lindstrom, nonostante una tecnica solida, non è stata invece una Turandot trascinante, colpa del registro medio poco voluminoso, che lha penalizzata nei passaggi centrali dellaria desordio. La sua caratura di interprete è comunque emersa nel corso della recita, e, dopo la bella prova nel duetto del terzo atto, le ha anche assicurato unovazione agli applausi finali. Qualche problema lha invece avuto il tenore Stuart Neill (Calaf). Non aiutato da una figura imponente, Neill è stato un Calaf generico, sotto il profilo vocale in difficoltà in alcuni momenti topici (allimpervio «tutta ardente damor!» del secondo atto si è temuto il peggio) e in tutta la parte finale dellopera. Bene gli altri interpreti: Marco Spotti (Timur), Antonello Ceron (Altoum), Angelo Veccia (Ping), Luca Casalin (Pang), Carlo Bosi (Pong). In particolare gli ultimi tre hanno mostrato anche ottime capacità attoriali nel siparietto con telecamere e proiezioni dei loro primi piani allinizio del secondo atto.
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