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Vedere il senso

di Elisa Uffreduzzi
  La fine è il mio inizio
Data di pubblicazione su web 04/04/2011  

La fine è il mio inizio è l’intenso film di Jo Baier, tratto dall’omonimo libro scritto a quattro mani dal giornalista Tiziano Terzani con il figlio Folco e pubblicato postumo.

Sceneggiato dallo stesso Folco e da Ulrich Limmer, il film, come il libro, raccoglie le memorie di Terzani padre (interpretato da Bruno Ganz), tra confidenze e riflessioni su temi esistenziali, ma anche sui grandi avvenimenti politico-sociali che hanno segnato questo secolo nell’arco della sua vita: la guerra in Vietnam, la Cina di e dopo Mao, ecc.

Finanziato dalla casa di produzione tedesca Colina Filmproduktion di Monaco di Baviera con la collaborazione della Toscana Film Commission, La fine è il mio inizio è un film essenzialmente “di sceneggiatura”: rappresenta l’immaginaria versione filmata di quelle conversazioni che il trentatreenne Folco (interpretato da Elio Germano) ebbe col padre prossimo alla morte, che sentiva il bisogno di ripercorrere le principali tappe della propria vita, «per vedere insieme se tutto sommato c’è un senso!». Girato nel paesaggio toscano tra Pracchia e Orsigna (Pistoia), nella casa dove realmente visse e morì lo scrittore, il testo filmico costituisce una vera e propria intervista filmata, con la macchina da presa che incalza i personaggi, costringendoli costantemente in quadri stretti sui volti fino alla “mutilazione”. Sembra così volerli penetrare nell’animo, per leggervi la loro verità e al tempo stesso ricalca i modi di un reportage televisivo, con la macchina in presa diretta sul reale e le sbavature di circostanza. Facce e personaggi a tratti sfuggono alle inquadrature, mentre una fotografia (quella di Judith Kaufmann) limpida e pulita da far invidia a un servizio del National Geographic restituisce alla Val d'Orsigna, tanto amata dallo scrittore, quell’aura di spiritualità e fascinazione, per cui lo stesso Terzani l’equiparava a una sorta di Himalaya personale, nel cuore dell’Italia. L’uso dell’obiettivo grandangolare ci restituisce immagini documentaristiche e fortemente evocative insieme, in cui i protagonisti appaiono presenze risibili di fronte alla potenza della natura, fino a confondersi con essa.

 


 



 

Se dunque il valore del film si misura inevitabilmente sulle inestimabili parole di Terzani, dense di una saggezza disarmante e scevra da inutile retorica; tuttavia anche dal punto di vista del linguaggio visivo la pellicola presenta notevoli punti di interesse. In particolare il paesaggio della montagna pistoiese assume una duplice valenza in rapporto al linguaggio cinematografico: se da un lato funge da mero sfondo, nelle immagini in cui il background è fuori fuoco, lontano e “dietro” agli attori in avampiano, dall’altro acquisisce una presenza tale da farne un vero e proprio “personaggio”. Ciò accade laddove lo sfondo della verde e fitta Val d’Orsigna è perfettamente a fuoco dietro agli interpreti, o meglio accanto ad essi. Allora le foglie mosse dal vento o la montagna immobile, acquisiscono le sembianze di una presenza muta che ci osserva, di uno sguardo, ora benevolo, ora anche inquietante, sul nostro vivere. Lo stesso Terzani/Ganz ci offre la chiave di lettura, allorché appone due occhi posticci a un albero, perché i nipoti imparino che anche la natura ha una sua vita, ma non si emoziona né si addolora per le nostre gioie e i nostri patimenti, come si evince dalle stesse parole pronunciate da Ganz. È un osservatore muto e silenzioso, che si limita ad esserci.

 


 



 

La struttura narrativa appare giocoforza esile: l’unica cosa che accade è la morte di un uomo anziano e malato. Si tratta in fin dei conti – lo si è detto – della simulazione di un’intervista filmata, un lungo monologo riflessivo, le memorie di un uomo. Un’architettura drammatica così pensata tende necessariamente allo scopo precipuo di focalizzare l’attenzione del pubblico sul testo, sulla parola e il suo significato profondo. Proprio per questo tanto più valore acquisisce lo sforzo interpretativo di Bruno Ganz nel dare volto e gesti alle parole di un uomo che un’interpretazione sovraccarica o incolore avrebbero reso inefficaci, nonostante la forza del suo messaggio. Ganz ha saputo trovare la giusta misura, rendendo piacevole ascoltare le parole del saggio sullo schermo. Di contro Elio Germano risulta penalizzato da un ruolo che lo riduce a mero espediente narrativo, un pretesto per lasciare la parola al padre; ma del resto questo è stato probabilmente il ruolo del Folco Terzani co-autore del libro insieme al padre, anche nella realtà di quell’estate del 2004.




La fine è il mio inizio
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