Thomas Mann, nel romanzo Altezza reale, racconta di unincresciosa esecuzione del Flauto magico, dove i cantanti si coprono di ridicolo nelle parti in cui devono passare dal canto al dialogo parlato. È un rischio che non hanno corso gli interpreti di questo Fidelio, opera che presenta la stessa struttura da Singspiel del capolavoro mozartiano: il lavoro registico di Manfred Schweigkofler trova il proprio fondamento nellestrema valorizzazione delle parti in prosa, eseguite senza i tagli di tradizione e, anzi, intese come momenti di snodo drammaturgico dun libretto intimidito allidea che a intonarlo sarà il genio di Beethoven; dunque, capace di dar vita alle motivazioni più profonde dei personaggi solo quando la musica tace, mentre a mandare avanti lazione è la parola parlata.
Foto di Franco Tutino
Nel ridare vita alla stessa squadra dellottima Elektra dellanno scorso (Gustav Kuhn sul podio, il soprano Anna Katharina Behnke quale protagonista e, appunto, il regista Schweigkofler) il Teatro Comunale di Bolzano centra dunque di nuovo il bersaglio. La messinscena appartiene a un genere che potremmo definire “minimalismo di spessore”: scenografia limitata a una nuda attrezzeria (panche, sgabelli, dei pali che calano dallalto evocando unidea di gabbia speculare alla prigione in cui è ambientata la storia), costumi senza tempo, insomma una dialettica di “pieni” e di “vuoti” tra lo spazio scenico spoglio e la densità drammatica dellopera enfatizzata proprio da quella grigia nudità. In questa prospettiva il grandioso messaggio etico del Fidelio viene sottratto tanto alle sue suggestioni classiciste quanto al suo impulso romantico, per assumere piuttosto il sapore dun Lehrstück, un “pezzo didattico” brechtiano: la prigione diventa un luogo mentale ma anche metateatrale, e la Sinfonia ci mostra un gruppo di carcerati con dei copioni in mano (mentre i protagonisti sono seduti al proscenio, in attesa di fare il loro ingresso) come se stessimo per assistere a una recita di ergastolani.
Le pantomine degli ottimi danzatori della Compagnia Abbondanza / Bertoni, che si affiancano al coro nel dar vita ai prigionieri, sottolineano questa dimensione di teatro epico estraniato; e a far crollare definitivamente la quarta parete provvede il modo con cui Schweigkofler illustra la Leonore n. 3: Florestan e Leonore escono attraverso il fondale che, aprendosi, li fa sbucare sulla strada di Bolzano che dà sul retro del teatro, mentre su dei monitor scorrono immagini di Resistenza “al femminile”. Qui, però, entra in gioco anche la musicalità di questa regia. Una simile uscita di scena non è solo un colpo di teatro: rende alla perfezione quellidea di transito verso lepilogo e la catarsi che la sinfonia Leonore n. 3 – a volerla collocare in sottofinale, secondo la lectio di Mahler – dovrebbe rappresentare. La sensibilità musicale del regista, daltronde, si nota pure in altri dettagli: il quartetto “a canone” del primo atto è costruito, nella recitazione e nelle movenze dei personaggi, con quel senso di circolarità e continuo passaggio del testimone in cui il procedimento compositivo a canone si sostanzia; e sottolineare certi aspetti da commedia dellarte dei due ruoli “leggeri” della vicenda (Marzelline ha i pruriti delle Colombine goldoniane, Jaquino è un fool che – da bravo secondino della prigione – fa giochi di prestigio con le catene dei carcerati, lasciando intuire la loro liberazione conclusiva) significa aver colto sollecitazioni lasciate da Beethoven sottotraccia. Meno felice, e già vista in altri spettacoli, lidea di sottolineare la malvagità di Pizarro attraverso una menomazione fisica.
Foto di Franco Tutino
Con una recitazione intensa ma asciutta e una vocalità solida al servizio di un fraseggio sempre espressivo (che il registro acuto dia qualche segno di tensione è male da poco, in questo quadro) la Behnke è la protagonista ideale, per un simile spettacolo. Gli interpreti maschili non sono alla sua altezza, anche se il cast è ben amalgamato. Andreas Schager ha una presenza scenico-vocale di una certa autorevolezza, supportata da un timbro gradevole. Resta al di sotto di quanto Florestan richiede, ma questo è il destino di nove tenori su dieci, nel Fidelio. Rinunciare ad eseguire la messa di voce sul Sol allattacco della sua micidiale aria, come ha fatto la sera della “prima”, non rientra però nelle regole del gioco: è un punto in cui quasi tutti cadono, ma aggirare lostacolo cassandolo sottrae allopera uno dei suoi più grandi momenti di drammaturgia canora. Meno convincenti, comunque, sono apparsi il baritono Thomas Gazheli e il basso Ethan Herschenfeld: il primo traduce la crudeltà di Pizarro con una linea di canto troppo aggredita, troppo monodimensionale, troppo poco intonata; il secondo denuncia unacerbità vocale e, al contempo, una secchezza timbrica lontane da quel concentrato di umori popolareschi e pietas che la figura di Rocco dovrebbe rappresentare.
Fanno buona figura i ruoli minori: Rebecca Nelsen plasma, grazie a una voce piccola ma ben pilotata, una Marzelline buffa, tenera e sensuale; Alexander Kaimbacher è duttilissimo nellattribuire a Jaquino quella marcia in più che questa regia richiede; Sebastian Holecek, nellintervento conclusivo di Don Fernando, si dimostra baritono di classe. Ma soprattutto emerge la direzione di Kuhn, felicemente assecondato dallOrchestra Haydn e dal Philharmonia Chor di Vienna. Il suo Fidelio più teatrale che spirituale, più sensibile agli esiti narrativi della musica di Beethoven che alla tensione morale da essa veicolata, è frutto di una razionalità semplificatrice tuttaltro che semplicistica. E il ventaglio agogico-dinamico è quello della grande bacchetta, capace nella parte iniziale dellopera di freschissimi equilibri formali (non è un caso se lorchestra di cui è direttore musicale è intitolata a Haydn) e, nel prosieguo, di affondi dun romanticismo totalizzante: il “fortissimo” su cui chiude la Leonore n. 3 è di unespansione fonica impressionante, ma senza tentazioni retoriche. Meriterebbe di figurare in unantologia beethoveniana.
|
|