Nella ricchissima, variegata e talvolta controversa stagione dellestrema maturità artistica di Riccardo Muti, il Moïse et Pharaon che ha inaugurato lOpera di Roma si pone come ideale sismografo: da un lato unopera tra le più congeniali a un direttore che, dopo aver conseguito nel Guglielmo Tell uno dei risultati più strepitosi dei propri anni giovanili, ha lasciato trascorrere lunghi tempi di sedimentazione prima di tentare altri approdi al Rossini serio; dallaltro, uno spettacolo che rispecchia la visione tardotoscaniniana che il Muti di oggi ha dellingranaggio operistico – e sarà bene sottolineare “tardo”. Se Arturo rappresenta da sempre la stella polare di Riccardo (per letica di porsi sempre e soltanto al servizio del compositore, e per lidea che la vera fedeltà è allo spirito della partitura, anche qualora si stacchi un tempo o si osservi una dinamica non conformi al segno scritto), con gli anni si è fatta strada una concezione simile a quella che portò il Toscanini della vecchiaia a registrare Aida e Traviata con due protagoniste deludenti, confidando solo sul proprio demiurgico talento. Ne è specchio eloquente questo Moïse dal cast rispettabilissimo ma non sempre pari ai desiderata dei ruoli, dove i cantanti sono strumenti tra gli altri strumenti: chi è convinto che unopera di Rossini – compreso quello “francese” – si sostanzi sempre nelle voci che leseguono resterà deluso, chi cerca la plasticità delle architetture musicali uscirà di teatro felice e, forse, soggiogato.
Daltronde la scelta operata da Muti ogni qualvolta si accosta al Rossini del Mosè è appunto quella di optare per il rifacimento parigino, piuttosto che eseguire la stesura sancarliana duna decina di anni prima (Mosè in Egitto): un rifacimento che sacrifica molti tra i pezzi più spiccatamente belcantistici delloriginale e, in parte, corrobora la visione tuttaltro che canorocentrica del direttore. Con questo, tuttavia, non si vuol dire che quello di Muti sia un Rossini prettamente “francese”. Al di là della capacità di sviscerare la ricchezza contrappuntistica e lintreccio delle parti, oltre la maestria tecnica – forse anche un po compiaciuta – con cui vengono fatti delibare certi momenti canonici (i riverberati rintocchi delle percussioni durante la Preghiera), la grandezza della sua lettura sta nella capacità di sintesi stilistica: il respiro e larticolazione sono quelli del grand-opéra, ma severità oratoriale e concentrazione interiore sembrano discendere dal più conciso – e moderno, in certe ellissi della costruzione drammaturgica – Mosè in Egitto.
Ne scaturisce un crogiuolo di linguaggi, del tutto concatenati tra loro, che va dal trascolorare di arioso e declamato della tragédie-lyrique di Spontini (forse il modello più pressante, per il Rossini del Moïse) alle suggestioni degli oratori del classicismo viennese; ma anche, in filigrana, a quelle commistioni di sinfonismo e vocalismo, echi gluckiani e anticipazioni mozartiane che trovano in certi autori della scuola napoletana, e soprattutto in Jommelli (non a caso la più affascinante delle riscoperte di Muti, negli ultimi tempi), un fertile ponte tra differenti civiltà musicali. Lorchestra del Teatro dellOpera asseconda bene la bacchetta: da anni non raggiungeva un livello così alto, quanto a precisione ritmica e ampiezza del ventaglio dinamico. Il buono potrebbe trasformarsi in ottimo laddove Muti arrivasse anche a costruirle un suono immediatamente riconoscibile, una precisa cifra timbrica: traguardo cui, di solito, può aspirare un direttore stabile e non un “direttore principale ospite”, o comunque si voglia definire la non episodica ma neppure stanziale presenza mutiana sul podio romano. Dopo anni di sbando, è invece ormai ottimo il coro: larrivo di un maestro come Roberto Gabbiani si sente.
I cantanti appaiono molto professionali e ben amalgamati. Tuttavia è difficile definirli una compagnia ideale se si pensa che, in unopera con cinque protagonisti, le cose migliori venivano dai ruoli non trascurabili ma defilati di Marie ed Éliézer, affrontati luna con voce corposa e timbrati affondi mezzosopranili dalla georgiana Nino Surguladze (nel secondo cast affronta la più impegnativa parte di Sinaïde), laltro con accenti ora patetici ora vibranti da Juan Francisco Gatell, tuttaltro che tenorino ma vero “secondo tenore”, capace di ritagliarsi due bei primi piani nel racconto del primo atto e nel suo intervento durante la Preghiera. Resa lode pure a Riccardo Zanellato, che compensa un certo grigiore timbrico con lincisività del suono (e difatti, oltre al perfido sacerdote Osiride, Muti gli riserva lintervento fuori scena della voce di Dio), resta il quintetto protagonistico. La coppia regale – il faraone e Sinaïde – funziona bene: Nicola Alaimo non è cantante di troppe finezze ma sbozza efficacemente il personaggio, nellarroganza come nei momenti supplici; e Sonia Ganassi, forse un po circospetta (o non in ottima forma) allinizio, poi prende quota, confermando le sue qualità di duttile vocalista e interprete espressiva. Meno a fuoco gli altri tre interpreti.
Eric Cutler ha tutte le note dellimprobo ruolo di Aménophis, scritto per un tenore acuto come Nourrit, e non è cosa da poco. Che poi tale note siano sempre raggiunte in modo gradevole allorecchio, sarebbe difficile affermarlo. Anna Kasyan è molto giovane e, per giunta, alle prese con una sostituzione demergenza. Nella grande aria di Anaï resta al di sotto di ciò che la pagina richiede, ma è ammirevole che il brano venga eseguito nella sua integrità, senza quei tagli che hanno agevolato certe grandi interpreti del passato. Lonore delle armi, quindi, è garantito. Attenzione però a certi acuti forzati: da mettere a posto, finché si è in tempo. Ildar Abdrazakov ha emissione morbida e buon volume in alto. I gravi, invece, appaiono fiochi e al suo canto difetta un accento davvero profetico e quellampiezza di cavata necessaria alla Preghiera dellultimo atto. Manca insomma – per così dire – il physique du rôle timbrico che servirebbe a Mosè.
Se il cast vocale è stato comunque felicemente plasmato da Muti, regia e direzione dorchestra entrano in magra dialettica. Non cè però molto da dire su una messinscena raggruppata in una stessa mano – PierAlli firma regia, scene, costumi e video – che, nel descrivere un Egitto senza tempo, gioca la carta dun polistilismo figurativo più affastellato che fantasioso, più diseguale che stratificato. Luso delle proiezioni consente di rendere con efficacia lapertura delle acque del Mar Rosso (croce e delizia dei registi di ogni Mosè), ma altrove aleggia limpressione che il ricorso ai video sia quasi compulsivo, e le immagini imbocchino un binario parallelo alla musica. Pure la coreografia rarefatta e minimalista di Shen Wei sembra rispondere a sollecitazioni estetiche lontane dalle danze dun grand-opéra: ma almeno ha un suo indubbio fascino visivo, e trova nellétoile Fang-Yi Sheu una vestale deliziosa.
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