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Mosè o della sintesi stilistica

di Paolo Patrizi
  Moïse et Pharaon (foto C.M. Falsini)
Data di pubblicazione su web 09/12/2010  

Nella ricchissima, variegata e talvolta controversa stagione dell’estrema maturità artistica di Riccardo Muti, il Moïse et Pharaon che ha inaugurato l’Opera di Roma si pone come ideale sismografo: da un lato un’opera tra le più congeniali a un direttore che, dopo aver conseguito nel Guglielmo Tell uno dei risultati più strepitosi dei propri anni giovanili, ha lasciato trascorrere lunghi tempi di sedimentazione prima di tentare altri approdi al Rossini serio; dall’altro, uno spettacolo che rispecchia la visione tardotoscaniniana che il Muti di oggi ha dell’ingranaggio operistico – e sarà bene sottolineare “tardo”. Se Arturo rappresenta da sempre la stella polare di Riccardo (per l’etica di porsi sempre e soltanto al servizio del compositore, e per l’idea che la vera fedeltà è allo spirito della partitura, anche qualora si stacchi un tempo o si osservi una dinamica non conformi al segno scritto), con gli anni si è fatta strada una concezione simile a quella che portò il Toscanini della vecchiaia a registrare Aida e Traviata con due protagoniste deludenti, confidando solo sul proprio demiurgico talento. Ne è specchio eloquente questo Moïse dal cast rispettabilissimo ma non sempre pari ai desiderata dei ruoli, dove i cantanti sono strumenti tra gli altri strumenti: chi è convinto che un’opera di Rossini – compreso quello “francese” – si sostanzi sempre nelle voci che l’eseguono resterà deluso, chi cerca la plasticità delle architetture musicali uscirà di teatro felice e, forse, soggiogato.

 


 

D’altronde la scelta operata da Muti ogni qualvolta si accosta al Rossini del Mosè è appunto quella di optare per il rifacimento parigino, piuttosto che eseguire la stesura sancarliana d’una decina di anni prima (Mosè in Egitto): un rifacimento che sacrifica molti tra i pezzi più spiccatamente belcantistici dell’originale e, in parte, corrobora la visione tutt’altro che canorocentrica del direttore. Con questo, tuttavia, non si vuol dire che quello di Muti sia un Rossini prettamente “francese”. Al di là della capacità di sviscerare la ricchezza contrappuntistica e l’intreccio delle parti, oltre la maestria tecnica – forse anche un po’ compiaciuta – con cui vengono fatti delibare certi momenti canonici (i riverberati rintocchi delle percussioni durante la Preghiera), la grandezza della sua lettura sta nella capacità di sintesi stilistica: il respiro e l’articolazione sono quelli del grand-opéra, ma severità oratoriale e concentrazione interiore sembrano discendere dal più conciso – e moderno, in certe ellissi della costruzione drammaturgica – Mosè in Egitto.

 

Ne scaturisce un crogiuolo di linguaggi, del tutto concatenati tra loro, che va dal trascolorare di arioso e declamato della tragédie-lyrique di Spontini (forse il modello più pressante, per il Rossini del Moïse) alle suggestioni degli oratori del classicismo viennese; ma anche, in filigrana, a quelle commistioni di sinfonismo e vocalismo, echi gluckiani e anticipazioni mozartiane che trovano in certi autori della scuola napoletana, e soprattutto in Jommelli (non a caso la più affascinante delle riscoperte di Muti, negli ultimi tempi), un fertile ponte tra differenti civiltà musicali. L’orchestra del Teatro dell’Opera asseconda bene la bacchetta: da anni non raggiungeva un livello così alto, quanto a precisione ritmica e ampiezza del ventaglio dinamico. Il buono potrebbe trasformarsi in ottimo laddove Muti arrivasse anche a costruirle un suono immediatamente riconoscibile, una precisa cifra timbrica: traguardo cui, di solito, può aspirare un direttore stabile e non un “direttore principale ospite”, o comunque si voglia definire la non episodica ma neppure stanziale presenza mutiana sul podio romano. Dopo anni di sbando, è invece ormai ottimo il coro: l’arrivo di un maestro come Roberto Gabbiani si sente.

 

I cantanti appaiono molto professionali e ben amalgamati. Tuttavia è difficile definirli una compagnia ideale se si pensa che, in un’opera con cinque protagonisti, le cose migliori venivano dai ruoli non trascurabili ma defilati di Marie ed Éliézer, affrontati l’una con voce corposa e timbrati affondi mezzosopranili dalla georgiana Nino Surguladze (nel secondo cast affronta la più impegnativa parte di Sinaïde), l’altro con accenti ora patetici ora vibranti da Juan Francisco Gatell, tutt’altro che tenorino ma vero “secondo tenore”, capace di ritagliarsi due bei primi piani nel racconto del primo atto e nel suo intervento durante la Preghiera. Resa lode pure a Riccardo Zanellato, che compensa un certo grigiore timbrico con l’incisività del suono (e difatti, oltre al perfido sacerdote Osiride, Muti gli riserva l’intervento fuori scena della voce di Dio), resta il quintetto protagonistico. La coppia regale – il faraone e Sinaïde – funziona bene: Nicola Alaimo non è cantante di troppe finezze ma sbozza efficacemente il personaggio, nell’arroganza come nei momenti supplici; e Sonia Ganassi, forse un po’ circospetta (o non in ottima forma) all’inizio, poi prende quota, confermando le sue qualità di duttile vocalista e interprete espressiva. Meno a fuoco gli altri tre interpreti.

 

Eric Cutler ha tutte le note dell’improbo ruolo di Aménophis, scritto per un tenore acuto come Nourrit, e non è cosa da poco. Che poi tale note siano sempre raggiunte in modo gradevole all’orecchio, sarebbe difficile affermarlo. Anna Kasyan è molto giovane e, per giunta, alle prese con una sostituzione d’emergenza. Nella grande aria di Anaï resta al di sotto di ciò che la pagina richiede, ma è ammirevole che il brano venga eseguito nella sua integrità, senza quei tagli che hanno agevolato certe grandi interpreti del passato. L’onore delle armi, quindi, è garantito. Attenzione però a certi acuti forzati: da mettere a posto, finché si è in tempo. Ildar Abdrazakov ha emissione morbida e buon volume in alto. I gravi, invece, appaiono fiochi e al suo canto difetta un accento davvero profetico e quell’ampiezza di cavata necessaria alla Preghiera dell’ultimo atto. Manca insomma – per così dire – il physique du rôle timbrico che servirebbe a Mosè.

 

Se il cast vocale è stato comunque felicemente plasmato da Muti, regia e direzione d’orchestra entrano in magra dialettica. Non c’è però molto da dire su una messinscena raggruppata in una stessa mano – Pier’Alli firma regia, scene, costumi e video – che, nel descrivere un Egitto senza tempo, gioca la carta d’un polistilismo figurativo più affastellato che fantasioso, più diseguale che stratificato. L’uso delle proiezioni consente di rendere con efficacia l’apertura delle acque del Mar Rosso (croce e delizia dei registi di ogni Mosè), ma altrove aleggia l’impressione che il ricorso ai video sia quasi compulsivo, e le immagini imbocchino un binario parallelo alla musica. Pure la coreografia rarefatta e minimalista di Shen Wei sembra rispondere a sollecitazioni estetiche lontane dalle danze d’un grand-opéra: ma almeno ha un suo indubbio fascino visivo, e trova nell’étoile Fang-Yi Sheu una vestale deliziosa.

 

 

 


 

Moïse et Pharaon



cast cast & credits


Sonia Ganassi e Eric Cutler (Foto C.M. Falsini)




 
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