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La forza del silenzio

di Diego Passera
  Ineffabile
Data di pubblicazione su web 02/12/2010  

Orwell sosteneva che «il miglior libro è quello che vi dice ciò che già sapete». L’opera d’arte assoluta parla alla collettività in modo diversificato e digradando i suoi significati profondi a seconda dei percorsi di vita, dei traumi, delle paure, delle ansie e delle aspettative di ogni singolo fruitore. Questo è sicuramente vero per tutta l’arte novecentesca, che di fatto si è sempre contrapposta agli ideali di universalità, pur nel tentativo, che ha invece intrapreso, di raggiungerli (questo almeno a partire dalle esperienze avanguardiste). Il lavoro di Rem & Cap fin dal primo spettacolo (Giorni Felici, 1970) sfugge a qualunque afferenza. E d’altra parte la quasi totale assenza di studi monografici a loro dedicati  è evidente dimostrazione anche della difficoltà di parlare dell’essenza stessa delle loro performance.

 

 

Significativo che il logos sia al centro del loro ultimo spettacolo, Ineffabile, in scena alla Pergola di Firenze, dopo il debutto in anteprima nazionale al Teatro Valle di Roma. Il titolo allude etimologicamente a ciò che non può essere espresso a parole; ma assurge poi a metafora assoluta di una incomprensione totale intorno a questioni e misteri che vanno oltre la ragione verso una metafisica delle emozioni. Il tutto si manifesta scenicamente nel non-sense delle azioni, nella vorticosità priva di logica dei movimenti, nella dislalia e nel borborigmo dei performer. Almeno questo è quello che succede immediatamente dopo la sequenza del risveglio con cui si apre la performance.

 

All’inizio in scena sono visibili soltanto dei sacchi di iuta (uno degli elementi caratteristici di Rem & Cap) distribuiti e raggruppati in modo asimmetrico. Unico elemento verticale sono tre alte scale di ferro che salgono fino alla graticcia (altra presenza scenica tradizionale). Un “essere nero”, una specie di terribile e angoscioso Grande Fratello, si aggira lento e inquietante in questo spazio surreale, risveglia gli individui chiusi ognuno nel suo sacco in totale isolamento e interviene più avanti a sedare qualunque loro istinto di raggruppamento. Questi pseudo-umani si destano in un tempo e in un luogo non definiti. Iniziano a prendere coscienza del sé e dell’altro, in un lungo e lento processo enfatizzato da una costruzione scenica al rallentatore. Scampoli di una umanità pregressa iniziano poi a riemergere molto lentamente, in modo disarticolato e ancora privo di logica, come le forme dell’inconscio durante una seduta psicanalitica. Per riappropriarsi di quelle piccole certezze che iniziano a formarsi in loro, a questi individui non rimane che fare ricorso a una ritualità primordiale e istintiva, che riesce a sintonizzarli di nuovo su se stessi.

 

 

Movimento, ritmo, musica, canto, danza e percussioni sono infatti gli elementi attraverso cui i corpi messi in scena da Remondi e Caporossi danno vita a un gioco di forze ancestrali che guida il processo di riappropriazione di un sé smarrito. Sulla scena appaiono i fantasmi (il bianco rafforza questa idea) di una umanità persa nel vuoto alla ricerca di un non-si-sa-cosa sempre sfuggente e mai visibile. Lo spazio vuoto crea per assurdo un luogo claustrofobico che ingabbia gli esseri e non permette loro via di scampo. Eppure proprio la ritualità con la sua forza prepotente riesce a far trovare un senso alla disperazione: diviene la forza riconciliante, che permette di sconfiggere il nero individuo che incombe minaccioso sulle relazioni interpersonali. Suggestiva e di forte impatto ritmico-dinamico è la lunga sequenza che inizia con la tarantella intonata da una ragazza al suono del tamburello mentre un ragazzo appronta una danza disarticolata: attraversa il rito di iniziazione e ricongiungimento con la madre terra, con tutti i ragazzi genuflessi in cerchio per poi concludersi con la suggestiva processione, accompagnata da un completo silenzio: precisa indicazione di una possibile salvezza dalla distruzione totale.

 

 

Ineffabile, come si sarà capito, è uno spettacolo complesso e stratificato che mette in gioco una ricca serie di significati e di richiami intertestuali. Ma ciò che colpisce è l’estrema semplicità del meccanismo scenico, che, a dispetto del suo intrinseco caos, suggella l’essenza del teatro, finalmente ripulito dalle sovrastrutture dello show business e riportato a una purezza primigenia: quella del rito, della natura, della meditazione profonda del sé, del canto, della danza, del ritmo…

 

 

Ineffabile
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