Leo Gullotta è un grande attore; uno di quei casi (purtroppo) rari che continuano a mantenere molto alta la qualità del teatro italiano (e in certi casi anche del cinema). Gavetta, studio e molta esperienza gli hanno fatto sviluppare abilità tecnico-performative tali da annullare la sua figura e dare vita al corpo e alla voce di qualunque personaggio voglia. E poco importa che le prove offerte non siano tutte culturalmente elevate: un grande artista ha le necessarie doti di umiltà per dare il giusto peso ad ogni ruolo.
Gullotta è reduce da due stagioni fortunate (Luomo la bestia e la virtù nel 2006 e Il piacere dellonestà nel 2008), fresco del Premio Flaiano come miglior attore del 2010 e di un nastro dargento per i 50 anni di carriera. Adesso lo si ammira nel ruolo di Falstaff ne Le allegre comari di Windsor, ancora per la regia di Fabio Grossi e la produzione del Teatro Eliseo di Roma. The Merry Wives of Windsor vide la sua stesura nellannus mirabilis 1599. La richiesta sarebbe pervenuta addirittura dalla regina Elisabetta I, smaniosa di vedere Sir John Falstaff, già apparso nelle prime due parti dellHenry IV, nel ruolo di Innamorato. O almeno così si narra. È certo comunque che nella catalogazione dellopera shakespeariana il dramma è inserito, pur se con qualche forzatura, tra le cosiddette “Commedie romantiche”. Romantica o meno, di commedia si tratta e a pieno titolo.
Valentina Gristina e Leo Gullotta
Allentrata in sala al posto del sipario si ammira una specie di schermo televisivo con sovrimpresso il titolo della pièce di cui ci è sfuggita lintenzione registica. La mescolanza di spazio scenico ed extradiegetico, con tutti i personaggi che entrano dalla platea, e la presenza di parecchie canzonette assai orecchiabili su musiche di Germano Mazzocchetti accompagnate dalle simpatiche coreografie di Monica Codena introducono e mantengono lo spettatore in un clima leggero, da commedia appunto. Peccato però che la musica troppo alta copra quasi del tutto il canto, facendone perdere il significato. Unosservazione è dobbligo: linvasione delluditorio da parte degli attori è cosa ormai abusata dal teatro contemporaneo; ma in questo caso diviene scelta intelligente. È vero che lInghilterra elisabettiana non prevedeva separazione netta tra i due “luoghi”; ma nella cultura teatrale italiana, fondata sulla presenza della quarta parete, un tale escamotage sottolinea inevitabilmente luniverso comico in cui ci si addentra.
La regia di Grossi, coadiuvata dalla traduzione sua e di Simonetta Traversetti, riesce pienamente a enfatizzare i momenti comici raggiungendo risultati davvero spassosi. I continui cambi di luogo e una struttura testuale un po troppo frammentaria, lascito probabile di una composizione su tempi molto ristretti, sono ben risolti tramite molteplici mutazioni a vista, veri e propri siparietti comici da film muto (di questo è richiamo lo schermo iniziale?).
Leo Gullotta nel masque finale
La presenza di Elisabetta I permeava tutta la società inglese e più che mai il teatro, privilegiato strumento di promozione politica ed autoesaltazione della corona. La scena allestita da Luigi Perego vede la presenza di una gigantesca statua semovente della Virgin Queen, che funge anche da praticabile polifunzionale. Gli strati della veste dipinti allinterno e opportunamente aperti o chiusi a seconda delloccasione fungono da fondali; le gambe aperte e adornate da una giarrettiera rossa accolgono lo spazio dellOsteria in cui risiede Falstaff; una scala issata fino al petto conduce nellalloggio del protagonista. La casa di Monna Ford è ancora metonimicamente richiamata da un grande paravento posto al centro della scena, funzionale a creare uno spassoso gioco di nascondimenti vari allorquando giungono Sir Ford e Sir Page a stanare lincauto e sciocco cornificatore.
Quello presentato al Teatro Verdi di Firenze è uno spettacolo di livello alto. Lunico punto debole è un divario troppo evidente tra le qualità recitative degli attori. In particolar modo i personaggi maschili, esclusi il protagonista e il bravo Alessandro Baldinotti (eccellente nel ruolo del Dottor Caius), appaiono sempre un po troppo enfatici e accelerati con una esecuzione monocorde, che crea momenti di vuoto scenico e di lentezza piuttosto fastidiosi. Per fortuna le cadute sono pienamente contrappesate dagli altri attori e dal lavoro registico.
Il masque finale
Mirella Mazzeraghi è una splendida Mistress Quickly che riesce a condurre in modo egregio i tempi comici previsti nei vari duetti con i personaggi maschili. Tra tutti si segnala la querelle con Sir Hugh Evans durante la lezione di latino impartita dalluomo al giovane William Page. Rita Abela (Monna Page) e Valentina Gristina (Monna Ford) trovano un perfetto equilibrio, essenziale alla riuscita dello spettacolo, dando prova di buone capacità attoriali. I ruoli delle due wives risultano assai complessi per lo stratificato sistema metateatrale in cui sono inseriti. In particolare Gristina sviluppa ben tre modalità recitative: quella che connota il suo personaggio; quella dellInnamorata di fronte a Falstaff; quella dellonesta donna insidiata suo malgrado in presenza del marito.
Ma è Gullotta a primeggiare su tutti, offrendo al pubblico una performance eccellente, grazie alle sue eccelse qualità di mattatore e caratterista, che perfettamente si adattano al ruolo di Falstaff. Particolarmente apprezzabile il modo in cui riesce a sfruttare con grande perizia il ventaglio vocale permesso al suo personaggio – declinato dal sussurro allurlo disperato – integrando perfettamente il tutto con una gestualità asciutta ed essenziale. Egli rende pieno servizio alla volontà registica di creare un «innamorato cavalier galante, che confortato dalla sua pinguedine» diviene «un personaggio la cui comicità riuscirà a renderlo puranche leggero». Ma il grande attore riesce alloccorrenza a spostare lasse recitativo su toni più gravi. Dopo la bellissima scena del masque finale in cui tutti i personaggi si prendono gioco di lui sotto le sembianze di folletti e fatine guidati dalla Regina delle fate, Falstaff sveste i panni dello smargiasso crapuloso e sigilla la pièce con la riflessione offerta nel sonetto 121 di Shakespeare: in un mondo di meschini, il più meschino è re.
|