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La scacchiera dell'oblìo

di Assunta Petrosillo
  Gabriele Lavia
Data di pubblicazione su web 22/11/2010  

Contemporaneità e passato, grottesco e  farsesco, ilarità e malinconia si combinano e si scindono sulla scena. Lavia ‘tradisce’ il classico con arte e raffinatezza. In un spazio atemporale, minimalista, arredato con pochi oggetti porta in scena – al teatro della Pergola di Firenze − Il malato immaginario scritto da Mòliere nel 1673. È la storia di Argante, un uomo ipocondriaco convinto di essere malato e alla ricerca del ‘clistere’ giusto per non morire. Gli interrogativi che si pone Lavia sono due ovvero ‹‹Chi è il malato immaginario? È il malato soggetto e immaginario predicato nominale o è malato predicato nominale e l’immaginario soggetto? È l’immaginario dell’uomo che è malato o è un uomo malato nella sua immaginazione? Noi abbiamo scelto la strada dell’immaginario malato. E l’immaginario di quest’uomo è sottoposto a un potere assoluto che è il potere dei dottori››. Una rilettura moderna, attuale, che tra le righe restituisce la tragicità di chi è vittima di un potere dominante.

 


                                Gabriele Lavia (Argante)

 

In scena la solitudine di chi deve combattere solo contro il dolore, l’angoscia, la paura, la follia, il potere, la morte. E Lavia lo fa, con un andamento serrato ed equilibrato. La scena evoca  Beckett de Il nastro di Krapp e Malone muore. Come dirà lo stesso Lavia ‹‹Malone e Argante sono due uomini soli circondati da fantasmi, mostri››. Argante entra in scena con una vestaglia di velluto marrone, in una stanza dalle pareti nere metafora dell’ossessione e della morte. L’ambiente è scarno, pochi oggetti in scena, su un pavimento a scacchi. Il malato immaginario si siede alla scrivania bianca − posta nella penombra nell’angolo destro del proscenio − per ascoltare da un registratore la sua stessa voce che gli ricorda tutti gli appuntamenti farmacologici da espletare. Visto dall’alto sembra muoversi su una scacchiera dell’oblio, dove la pedina è sia preda che predatore.

 

L’immobilità, la staticità della scena dilatano i tempi interni fino a renderli interminabili, sconfinati. All’angolo sinistro un letto anch’esso bianco dal sapore ospedaliero e nascosta – in fondo alla scena − dietro una tela di iuta, la salle de bains, dove si compie ripetutamente il ‘viaggio’ del corpo malato.

 

 Gabriele Lavia(Argante) e Lucia Lavia (Angelica) 
 

Una stanza unica circondata da enormi specchi − simbolo dell’ossessione e della deformazione della realtà − che gradualmente si anima di personaggi grotteschi, i dottori dai lunghi ed esili arti con guanti gialli, dai corpi panciuti, irriverenti. Questi incombono sulla scena come insetti ‘carnivori’, dall’incedere scattante e nevrotico, dalle voci isteriche in preda a spasmi che si stagliano sul corpo ‘malato’ di un uomo ridotto a larva. Tra tutti si distingue Michele Demaria nel ruolo di Tommaso Diarreus. In questa stanza Argante si cura, ama, conversa, si dispera. Progressivamente emergono i personaggi, da una parte la serva Antonietta (Barbara Begala), portatrice sana di buonsenso, Beraldo (Gianni De Lellis) il fratello di Argante, un uomo calvo in marsina verde che come il saggio grillo di Pinocchio rammenta al fratello che la sua non è una malattia e che deve convincersi che i dottori non lo salveranno perché la sua è immaginazione. Dall’altra la seconda moglie di Argante, Belinda (Giulia Galiani), una dark lady in guêpière che s’insinua tra le lenzuola come una mantide che non aspetta altro che la morte del marito per arricchirsi. Una donna meschina, che nella gestualità ricorda la Lady Macbeth − dell’allestimento dello stesso Lavia − che più volte si rivolgerà al marito definendolo “bambinello mio” come aveva fatto con Macbeth chiamandolo “pulcino mio”. Contrasta con questa donna dark, la figlia Angelica (Lucia Lavia) esile, bionda, vestita con un tutù bianco, pura nel suo amore verso il padre nonostante questi non accetti il suo sentimento per il giovane Cleante (Andrea Macaluso). Purtroppo non è stato possibile apprezzare nell’interezza l’agilità del personaggio di Angelica − dato che un incidente avvenuto poco prima della rappresentazione  ha costretto l’ attrice a recitare seduta  in un angolo del proscenio per una slogatura alla caviglia. Molto apprezzabile l’inserto musicale con un Pulcinella che, imbracciando una chitarra, dalla platea sale in proscenio cantando “Languisco e moro per troppo amor” nella scena amorosa  tra Cleante e Angelica.

 


Gabriele Lavia (Argante) e Giulia Galiani (Belinda,moglie di Argante)
 

Molti i momenti di metateatralità e di grande incisività l’invettiva che Lavia-Argante pronuncia nei confronti di Mòliere definendolo un maleducato, arrogante che osa mettere in scena una storia come questa, e immaginando di essere lui un medico e Mòliere un paziente grida: ‹‹Sputa sangue! Crepa signor Mòliere!››.

 

Quando Argante si chiede se nella vita basta il ‘vestito’giusto per diventare medici, Lavia lancia una nota polemica contro il potere ‘attuale’ dominante. Lavia-Argante è incapace di emettere suoni come la campanella che scuote ripetutamente − invano− tra le mani. È muto, e nel silenzio ormai assordante crollano le pareti, mentre gli attori restano immobili, imbrigliati nel silenzio e avvolti nell’incubo.



Il malato immaginario
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