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Profilo di Luigi Squarzina

di Alessandro Tinterri
  Luigi Squarzina
Data di pubblicazione su web 03/11/2010  
 

E anche Luigi Squarzina se n’è andato, l’8 ottobre scorso a Roma. Erano dello stesso anno, lui e Gassman (di cui quest’anno si celebra il decennale della morte): Squarzina era nato a Livorno il 18 febbraio 1922, mentre Gassman è nato a Genova il 1° settembre. Si conobbero da ragazzi sui banchi del ginnasio-liceo Tasso a Roma, dove le famiglie si erano nel frattempo trasferite e, insieme, frequentarono l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica (oltre il diploma dell’Accademia, Squarzina conseguì con lode anche la laurea in Giurisprudenza). Ne nacque un sodalizio, che si tradusse in diversi spettacoli con Squarzina regista e Gassman protagonista, tra i quali un memorabile Amleto integrale (1952) e Tre quarti di luna (1953), testo scritto da Squarzina, che segnò il debutto come attore di un giovanissimo Luca Ronconi (una foto emblematica fissa il momento in cui il futuro regista pugnalava Gassman). Fu una stagione feconda per l’Accademia voluta da Silvio d’Amico: «Nel nostro gruppo di formazione – ricordava Gassman – (Salce, Celi, Mazzarella, Dal Fabbro, Troiani…) Luigi era considerato il cervello più criticamente addestrato, un’intelligenza nutrita dalla cultura e da una sorta di nativo, cartesiano rigore».

Un primo sentore di questa sua doppia valenza, di studioso e di artista, si ebbe quando Squarzina venne chiamato a far parte della redazione dell’Enciclopedia dello Spettacolo, impresa unica per quel tempo, fondata da Silvio d’Amico, tuttora un unicum a livello mondiale, di cui un Paese meno immemore del nostro menerebbe legittimo vanto, provvedendo ad aggiornarla. Nell’autunno del ’52 Squarzina fu incaricato di affiancare Silvio d’Amico come condirettore della sezione Teatro Drammatico. Era appena tornato dagli Stati Uniti, dove, come borsista all’Università di Yale, aveva seguito i corsi di Alois Nagler, portando con sé un esemplare fresco di stampa di Sources of Theatrical History. L’ingresso di Squarzina nel gruppo dell’Enciclopedia (che annoverava, tra gli altri, Fedele d’Amico, Francesco Savio, Cesare Garboli, Angelo Maria Ripellino, Elena Povoledo, Andrea Camilleri…) fu decisivo, secondo Alessandro d’Amico, che ne era il redattore capo: «Il primo contributo che Squarzina ci elargì fin dal suo approdo in via del Plebiscito fu d’ordine morale: diffuse in noi la convinzione che l’Enciclopedia dello Spettacolo non fosse (come a noi non senza angoscia appariva) una inerte raccolta di dati eterogenei, ma una summa dell’esistente così vasta da contribuire a determinare un salto qualitativo negli studi teatrali italiani. Il che puntualmente si verificò».

 


Adattamento per la Tv de I due gemelli veneziani (1978)

Ma fu al Teatro Stabile di Genova, di cui condivise la direzione con Ivo Chiesa dal 1962 al 1976, che Squarzina registrò i suoi maggiori successi e raggiunse la maturità artistica: «Molti sostengono – scrisse Chiesa – che è in questi quattordici anni che Squarzina ha dato il meglio di sé. Credo che sia vero. Ma è altrettanto vero che negli stessi anni si colloca il periodo più costantemente e coerentemente felice del Teatro di Genova».

A Genova Squarzina firmò 37 regìe, a partire dai Demoni di Dostojevskij nel 1957 (con una distribuzione eccezionale: Enrico Maria Salerno, Tino Buazzelli, Valeria Valeri, Luigi Cimara, Mercedes Brignone, Franco Scandurra, Antonio Pierfederici e i giovani Franca Nuti e Gastone Moschin), cui seguì nello stesso anno Misura per misura di Shakespeare. Ma fu con Uomo e superuomo di Shaw (1961) e il pirandelliano Ciascuno a suo modo (1961) che iniziò la feconda collaborazione con il giovane Alberto Lionello, un attore che Squarzina, sempre attento alle parole, avrebbe definito «immenso», volendo con ciò riferirsi non tanto, o non solo, alla varietà del suo registro di interprete, capace di variare dal comico al drammatico, di esibirsi come brillante e come chansonnier, ma volendo piuttosto alludere alla vastità del suo talento naturale, non meno che alla profonda originalità delle sue interpretazioni. Con Squarzina, divenuto nel frattempo condirettore del Teatro Stabile di Genova, Lionello avrebbe incarnato personaggi memorabili come il Goetz de Il diavolo e il buon dio di Sartre (1962) o lo Zeno Cosini de La coscienza di Zeno di Svevo (1964), dalla voce arrochita dal fumo – proprio lui maestro del doppiaggio, dalla voce morbida come il velluto: sua ultima prova l’indimenticabile duetto con Aroldo Tieri in A cena col diavolo (1992) di Édouard Molinaro. Sino al fregolismo interpretativo dei Due gemelli veneziani (1963), allestimento goldoniano che ha girato il mondo, ovunque accolto da consensi degni dello strehleriano Arlecchino servitore di due padroni.

Altrettanto significativi, per segno innovativo, classici come il Troilo e Cressida di Shakespeare (1964) e le Baccanti di Euripide (1968) nella traduzione di Edoardo Sanguineti e la bella scenografia di Gianni Polidori, ammiccante a Burri, mentre sul versante delle novità creava scandalo il suo Emmetì (1966), che lo portava in tribunale per quel Padre Nostro profano, inneggiante alla società dei consumi. Venne finalmente l’ora della proposta di Brecht con la Madre Coraggio (1970) di Lina Volonghi, sempre in marcia attaccata al suo carro sul brechtiano palcoscenico girevole creato da Gianfranco Padovani, e poi la Grusha di Lea Massari nel Cerchio di gesso del Caucaso (1974), sino al Terrore e miseria del Terzo Reich, che mise in scena al Teatro di Roma (1978). Durante gli anni genovesi diede vita al teatro-inchiesta inaugurato dal Processo di Savona (1965), che vide alla sbarra Sandro Pertini e altri antifascisti, cui seguirono altri copioni scritti a quattro mani con Vico Faggi, da Cinque giorni al porto (1969), sulle lotte sindacali di Di Vittorio, a Rosa Luxemburg (1976), passando per 8 settembre di De Bernart, Squarzina e Zangrandi (1972).

E’ stato, forse, il suo maggior risultato l’aver dato vita allo Stabile di Genova a un’indimenticabile compagnia goldoniana, formata da una compagine di attrici e attori che vale la pena ricordare: Lina Volonghi, Lucilla Morlacchi, Grazia Maria Spina, Elsa Vazzoler, Margherita Guzzinati, Esmeralda Ruspoli, Wanda Benedetti ed Eros Pagni, Camillo Milli, Omero Antonutti, Giancarlo Zanetti, Gianni Galavotti, Gianni Fenzi, Alvise Battain, Toni Barpi e altri ancora. Regista e attori insieme diedero vita a allestimenti goldoniani davvero memorabili: Una delle ultime sere di carnovale (1968), con l’intera compagnia schierata in scena a giocare la meneghella, che aveva loro insegnato Ludovico Zorzi, dramaturg di quello spettacolo, I rusteghi (1969) e La casa nova (1973). Il pubblico seduto in platea avvertiva il grande affiatamento degli attori e il successo andava aldilà dei singoli spettacoli, traducendosi nella più bella stagione teatrale della Stabile genovese, che coincise con la maturità del regista e di gran parte dei suoi interpreti.

Fu durante il periodo genovese che Squarzina, assieme a Chiesa e ad Alessandro d’Amico fondò il Museo Biblioteca dell’Attore, originato dal lascito della famiglia Salvini (di Guido Salvini Squarzina fu prima allievo, poi assistente e nel 1950 vicedirettore del suo Teatro Nazionale), presto accresciuto dal Fondo Adelaide Ristori: «Iniziò così - nel ricordo di d’Amico - un’avventura coloratissima che idealmente s’aprì con una mostra ristoriana nelle Sale Apollinee della Fenice nel 1968, e praticamente s’è chiusa nell’’87 con l’altra grande mostra al Massimo di Palermo dedicata a Pirandello capocomico». Nella prospettiva di Alessandro d’Amico fu quello un episodio tutt’altro che marginale e l’amarezza con cui a posteriori ne diede conto è rivelatrice delle aspettative a suo tempo nutrite. Tornavano a prendere corpo le ambizioni dell’Enciclopedia dello Spettacolo: «promuovere un metodico rinnovamento dell’analisi tecnica e storiografica sull’attore italiano dell’Otto e del Novecento, organizzandone le fonti». Ma non poteva bastare a d’Amico, che sognava un museo-biblioteca strettamente legato al teatro vivente; garante di questo legame avrebbe dovuto essere l’amico ritrovato (ho sempre pensato che per lui Squarzina fosse una sorta di fratello maggiore, con tutte le implicazioni del rapporto tra fratelli, anche di natura esteriore, lo stesso gusto per le cravatte liberty e le eleganti borse di Gherardini). Di qui la delusione di d’Amico e le parole di neppur troppo celato rimprovero, che non esitò a indirizzargli in un’occasione festevole come il suo settantesimo compleanno: «Nel ’76 Squarzina lasciò Genova e il suo ‘assenteismo’ divenne totale, con gravi conseguenze per l’istituzione, che si trovò alla fine degli anni ’80 ad affrontare una crisi dovuta ad errori di gestione ma soprattutto a un improvviso disinteresse di politici e amministratori. Nell’un caso e nell’altro il consiglio di Squarzina e il suo prestigio avrebbero potuto evitare il peggio. Oggi [1994] infatti il Museo Biblioteca dell’Attore è un vulcano spento, in attesa d’un altro utopista in grado di riattizzare il fuoco».

Reduce dall’esperienza genovese, Squarzina concluse a Roma la sua carriera di direttore di teatri pubblici. I suoi più fedeli collaboratori (da Gianni Fenzi, aiuto-regista storico, allo scenografo Gianfranco Padovani), insieme con alcuni attori, lo seguirono nella capitale e all’inizio s’illuse di poter cambiare dal suo interno lo Stabile romano, poi, la vischiosità ambientale ebbe il sopravvento e la riflessione che ne scaturì è affidata ai Cinque sensi, il copione che nel 1987 segnò il suo ritorno alla scrittura. Fu, tuttavia, anche quello un periodo a suo modo fertile, segnato da alcuni importanti spettacoli: Volpone di Ben Jonson (1977), ancora Misura per misura (1979), seguito nello stesso anno dal Ventaglio di Goldoni (per il programma di sala del quale scrisse un lucido saggio, in cui confluirono le intenzioni che non avevano trovato un’adeguata traduzione nello spettacolo), e Casa cuorinfranto di Shaw (1980). Si chiuse al Teatro di Roma la sua stagione alla direzione di teatri pubblici, dopo la quale Squarzina fece ritorno al teatro privato (era stato il primo direttore della Compagnia dei Giovani), un periodo condensato nelle parole di Lamberto Trezzini: «l’aspetto più felice della direzione di Squarzina al Teatro romano a noi par essere quello di aver dato al teatro di Roma una sua progettualità: integrare gli spettacoli con mostre, convegni, seminari in collaborazione con l’Università; di aver realizzato una decentralizzazione delle attività in città, in Provincia, nel Lazio, partecipando nell’epoca dell’”effimero” di Renato Nicolini a quel singolare esperimento di teatralizzazione dello spazio urbano».

Il profilo di Squarzina non sarebbe completo, se non si accennasse al suo magistero universitario, iniziato nel 1970 al DAMS di Bologna (ordinario di Istituzioni di regìa, quindi, alla Sapienza di Roma (Storia del teatro e dello spettacolo), conclusosi, infine a Roma Tre, dal 1998 professore emerito. Fu accanto a Benedetto Marzullo sin dal momento fondativo dell’innovativa istituzione bolognese, che «non sarebbe sorto senza l’apporto, in realtà l’appassionata identificazione, culturale e sperimentale di Luigi Squarzina». Alternando pratica registica e l’insegnamento al DAMS, dove gli erano assistenti Luigi Gozzi e Arnaldo Picchi, Squarzina istituì un rapporto osmotico tra la cattedra e il palcoscenico: «Le sue lezioni più belle – ha scritto Claudio Meldolesi, suo collega al DAMS bolognese, lui pure diplomato dell’Accademia d’Arte Drammtica – erano quelle laboratoriali, dedicate a perlustrare le possibilità rappresentative di un testo: lo stesso che avrebbe poi allestito professionalmente altrove. Soluzione incomprensibile per gli insegnanti ‘puri’ e che, invece, è il corrispondente pratico delle lezioni ex cathedra tenute dai professori impegnati nella ricerca».

I giovani che non lo hanno conosciuto lo possono vedere nell’unica sua prova di attore nei panni di un giornalista nel film di Francesco Rosi Il caso Mattei, interpretazione per cui ricevette il nastro d’argento come migliore attore debuttante. Oppure possono leggere i suoi libri, infatti, oltre alla sua opera significativa di autore drammatico, ci ha lasciato una cospicua produzione saggistica, Da Dioniso a Brecht (il Mulino, 1988), Questa sera Pirandello (Marsilio, 1990), Da Amleto a Shylock (Bulzoni, 1995), culminata nel suo ultimo e corposo contributo, Il romanzo della regìa. Duecento anni di trionfi e sconfitte, edito da Pacini nel 2005, sorta di testamento spirituale, che testimonia una riflessione ininterrotta sul teatro e le ragioni del suo mestiere di «regista critico».

Nel 1992 pubblicò un testo in due tempi, Siamo momentaneamente assenti, mise en abyme del sentimento della perdita, in esergo una citazione da Karen Blixen: «Vita e morte, come ricchezza e povertà, sono due scrigni chiusi, ognuno dei quali contiene le chiavi dell’altro».


Alessandro Tinterri






 

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