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Livido rifugio della coscienza

di Sara Mamone
  Post mortem
Data di pubblicazione su web 10/09/2010  

E’ un prodotto perfetto per un festival il livido film di Pablo Larrain, il trentacinquenne regista cileno noto per il precedente Tony Manero, da lui sceneggiato insieme all’attore Alfredo Castro, qui semplicemente in veste di protagonista. Ma che protagonista: è la sua faccia smunta e senza apparente espressione ma capace invece di impercettibili e infinite sfumature a dare al film tutta la sua angoscia, tutto quel senso di soffocamento che la trama da sola, pur angosciosa e colpevolizzante, non riuscirebbe a dare. E’ lui, con la sua irredimibile mediocrità, a attivare il senso di colpa del nostro sguardo. E a coinvolgerci nel rischio di appartenere alla razza di coloro che potrebbero diventare complici. Cile, 1973, in pieno golpe cileno Mario, impiegato di obitorio addetto alla trascrizione delle autopsie procede con freddezza ragionieristica all’aggiornamento delle sue cartelle, la sua vita grigissima trova pallida luce soltanto nel corteggiamento e nell’illusione amorosa nei confronti di Nancy, mediocrissima ballerina largamente avviata sul viale del tramonto e sua vicina di casa.


 

Anche quando l’assalto al palazzo presidenziale della Moneda e l’accumularsi dei cadaveri da analizzare all’obitorio lo mettono violentemente di fronte alla tragedia in corso i suoi unici pensieri sono per la vicina, di famiglia comunista. Quando tutto il nucleo familiare sparisce di casa l’unica preoccupazione dell’uomo è cercarla. La trova finalmente in soffitta e le dà rifugio in cantina, rifocillandola, sempre più sottilmente succube delle sue richieste. Nessun segno di turbamento invece al moltiplicarsi dei cadaveri, alla sostituzione del medico dell’obitorio con un ufficiale dell’esercito. Nessun fremito esplicito quando tra le varie autopsie deve trascrivere quella di un cadavere dilaniato da un colpo di fucile ravvicinato “non incompatibile con un’azione personale” (leggi suicidio) e il cadavere in questione è quello del presidente Salvador Allende.


 

Il solo barlume di vita della sua vita è aspettare la sera quando, finito il lavoro, si reca in cantina a rifocillare l’amata. Quando scopre che questa non è sola ma col proprio amante, procede, con la stessa fredda sistematicità con cui trascriveva i suoi referti, all’esecuzione della condanna a morte. La potenza visiva della scena finale è memorabile: la porta della cantina che veniva abitualmente occultata con un semplice armadio viene via via ingombrata di tutti gli oggetti possibili: comò, sedie, armadi, casse, cassette, lentamente, maniacalmente accatastati ad uno ad uno a costruire il blocco irremovibile della tomba. Questa scena vale da sola tutte le intenzioni metaforiche e contagia e opprime con la sua angosciosa permanenza la mente dello spettatore ben più di qualunque esplicito atto di accusa.

 

Post mortem
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