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Un'ottima prova d'attore

di Siro Ferrone
  La versione di Barney
Data di pubblicazione su web 10/09/2010  

La versione di Barney non solo è un libro assai venduto e forse assai letto, ma è anche un romanzo molto intelligente di uno scrittore (Mordecai Richler) che anche se avesse scritto solo queste pagine dovrebbe essere ricordato a lungo e apprezzato. Eppure – come ben sappiamo – un bel libro non sempre fa un bel film, anche se talvolta è vero il contrario per cui un film riuscito finisce per accrescere il valore del libro da cui è tratto, come avvenne ad esempio per il Gattopardo. E tuttavia qui mi fermo perché – come insegna ormai da tempo il codice professionale del recensore (sia esso di cinema o di teatro o di opera lirica) – non si giudica un lavoro creativo sulla base del confronto con la sua eventuale fonte.

 


 

Una cosa però il lettore-spettatore deve sapere: nel libro la narrazione è praticamente un diario tenuto dal protagonista Barney in prima persona; quel narratore non scrive per essere pubblicato ma solo per sé, registrando via via le tappe della sua demenza senile; è il figlio che si occupa di fare stampare il libro che contiene quindi la registrazione di un percorso comico verso la tragedia. Nel film invece c’è una narrazione oggettiva che segue il decorso della storia secondo un andamento cronologico, dalla giovinezza studentesca di Barney in Italia al suo primo fallimentare matrimonio al suo altrettanto fallimentare secondo matrimonio al suo felice terzo matrimonio fino al divorzio prima dalla moglie e poi dalla vita. In questo modo è stato difficile per la riscrittura filmica conservare il comico sfogo, prima bizzarro e poi irragionevole e infine demenziale, di cui il protagonista impregna progressivamente tutto il tessuto della storia. E tuttavia gli sceneggiatori sono stati bravi nell’isolare e tesaurizzare alcuni divertenti squarci di dialogato, ora volontariamente ora involontariamente, demenziale.

 


 

Un concertato frizzante – in cui affiorano i paradossi consueti dell’umorismo yiddish su sesso e famiglia – tiene viva la prima parte del film ma poi lascia progressivamente il posto ad un patetico di maniera che solo le straordinarie doti istrioniche del protagonista (Paul Giamatti) riscattano dalla banalità. È lui che, oscillando fra smarrimento e perfidia, cinismo e disperazione, illumina tutto il film, disegnando con umorismo le velleità dell’eroe piccolo-borghese, per poi affrontare, con un mestiere che ricorda i classici dell’Actors Studio, il quadro clinico della degenerazione cerebrale in cui precipita l’ultima breve parte della storia. Assiste Barney, lungo il corso della sua vita bizzarra, uno straordinario Dustin Hoffman, dolce e squinternato, padre fraterno e angelo custode dei vizi del figlio.

 

In fin dei conti una commedia corretta, filmata con decoro, recitata dagli altri comprimari con la dovuta professionalità, dal ritmo pacificato, con qualche piccola ridondanza narrativa, con qualche vuoto d’idee che non le impedirà però di accedere ad un buon circuito europeo e forse al suo interprete al premio per la migliore interpretazione maschile.

 


La versione di Barney
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