Ripetere il proprio verso a meno di quarantanni è un problema. È il problema di Sofia Coppola. Dopo alcune esperienze “di prova”, Lost in translation laveva finalmente consacrata come soggetto autonomo nel clan del padrino e laveva portata addirittura allOscar, presto, molto presto. È poi venuto Maria Antonietta a salvarla con uno scarto nettissimo dai rischi della duplicazione; anche se a ben guardare il tema era lo stesso, quello dello spaesamento, la scelta “alta” di unambientazione storica aveva ben nascosto i calchi e messo in evidenza, semmai, le caratteristiche di uno stile: femminile, attento, non affannato.
Somewhere recava dunque limpegno della definitiva consacrazione. Non è andata. Non perché sia brutto, assolutamente, il film è gradevole e armonioso, il soggetto un po facile ma passibile di infinite variazioni, e quindi anche qualcuna giusta e sorprendente, gli interpreti non usurati, soprattutto la protagonista femminile la dodicenne, espertissima Elle Fanning. Già in partenza però le cose non vanno bene, o meglio vanno così bene nella sequenza iniziale che tutto risulta poi variazione sul tema o, per essere meno teneri, ripetizione. Linizio folgorante che vede una Ferrari sfrecciare ripetutamente, ossessivamente, dinanzi agli occhi degli spettatori in un circuito vuoto e insensato dice già tutto della vita del protagonista: inutile, ripetitiva, che gira, appunto, a vuoto. Il resto è accumulo aneddotico a cui il fascino delabré della location principale nel mitico hotel Chateau Marmont, residenza occasionale o permanente di molte star hollywoodiane, nulla aggiunge. Tra stucchevoli coazioni erotico divistiche (pure una trasferta italiana come guest star per i Telegatti) e impegni senza vere motivazioni, si incunea lintermittente presenza della figlia preadolescente con la quale il padre ha un rapporto distratto e discontinuo ma mai privo di tenerezze.
Avete indovinato. La rinascita partirà da lì, cioè da lei. Dopo un periodo di intimità più lungo degli altri nel quale la silente creatura tutto registra senza mai porre ostacoli, cercando di non disturbare la vita del celebre padre, il pianto finalmente infantile che irrompe al momento del distacco avvia la strada della salvezza. Tornato in albergo il divo disdice la sua presenza per sempre e, salito sulla rombante Ferrari si dirige in una deserta strada di campagna. Ferma la macchina e scende, avviandosi a piedi verso un futuro supponiamo libero e vero. Questa la lettura, come dire, letterale. Le molte altre possibili (compresa quella che noi rifiutiamo “citazionista”) non sono aiutate dal protagonista Stephen Dorff, molto carino e spaesato ma non passibile di interpretazioni troppo ambigue. Un certa speranza è riposta nelle parole di una sua amica rintracciata al telefono nel momento più profondo della crisi (“sono una nullità, non valgo nulla”): “stai tranquillo, ti passerà”. Perfida e intelligente apertura a meno stucchevoli conclusioni. Lombra di Lost in translation resta comunque lunga, minacciosa.
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