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Una difficile ma riuscita prova d'esordio

di Sara Mamone
  La pecora nera
Data di pubblicazione su web 03/09/2010  

Cominciamo subito con una banalità, così ci spieghiamo meglio: la parola e l’immagine sono due forme espressive diverse. Spesso conciliabili, spesso si integrano a vicenda. C’è un caso però nel quale la parola è difficilmente conciliabile con l’immagine ed è, paradossalmente, quello dell’affabulazione, del racconto immaginifico in cui la parola, mitopoietica, richiede un’integrazione fantastica che mal si concilia con la perentorietà univoca dell’immagine. Ascanio Celestini, forse il miglior affabulatore dei giorni nostri, colui che nel suo raccontare sa creare spazi per la mente e la fantasia del suo ascoltatore, lo sa perfettamente ed è per questo che, pur ronzandoci intorno da anni, non aveva finora affrontato di petto il lungometraggio. Libri sì, perché sulla carta le parole lasciano al lettore la sua forza immaginativa, documentari sì perché lì la parola non deve essere creatrice, e televisione sì, perché lì non si rischia molto. Ma il cinema! Celestini ci ha riflettuto per anni e negli ultimi due ha pensato a come dare corpo alle sue creature umiliate, ai suoi personaggi nati dalle ricerche sul campo, alla memoria collettiva che ha elaborato i miti e gli errori dei “favolosi anni Sessanta”. E ha fatto la scelta più onesta e sobria di un realismo quasi fotografico che non disturbasse la ricchezza, comunque mantenuta, del racconto. Che è sempre lui a creare immagini ed emozioni. Per tre anni ha fatto interviste mettendo insieme storie di manicomio e nei cinque successivi ha portato in scena la forza di questi racconti. Ora La pecora nera si presenta sul grande schermo con scarne parole di presentazione, e con scarne immagini che cercano di non disturbare.

 



“Quelli che abitano nella mia città finiscono tutti al manicomio. Qualcuno ci lavora, qualcun altro ce lo rinchiudono”. Comincia così il racconto di Nicola, che non accetta di essere Nicola e che chiama con questo nome un suo compagno (un doppio immaginario?) del quale, in veste di inserviente, si fa tutore e accompagnatore. Capiamo tutti da subito che le cose non stanno come il trasognato narratore ci racconta, capiamo subito che il discrimine che egli traccia tra la costrizione dei reclusi e la sua libertà è sottilissimo o forse addirittura inesistente. E mentre la storia si snoda con finezza di inserti memoriali capiamo che la sua tragedia  è cominciata molto presto, dalle visite alla madre in manicomio, dalla sua solitudine, dalla forza un po’ magica della nonna, dal degrado della compagnia dei “fratelli” nelle estati al pascolo, da una mancanza assoluta di riferimenti a cui le ossessive regole del manicomio fanno da contrappunto quasi rasserenante. La nonna che nel  passato gli ha dato forse l’unico affetto della vita è sostituita nell’universo manicomiale da una suora parimenti energica e determinante che scandisce la sue uscite per andare nel mondo (rappresentato dalle incursioni incantate e responsabilizzanti in un supermercato) nel quale riesce a muoversi con una certa autonomia. Ma la parvenza di normalità che il narratore ci ha imposto frana completamente quando il controllo della suora si allenta per qualche giorno (un viaggio a Roma, per i funerali del Papa). Al ritorno tutto sarà definitivamente univoco: il confine, ammesso che confine ci fosse mai stato, tra normalità e follia è decisamente cancellato.

 



Il film ha molti meriti, primo fra tutti quello di non iscriversi al filone rivendicativo-sociologico dei matti da slegare e ancor meno a quello truculento e concentrazionario:  nessuna violenza nelle immagini, nessuna violenza nelle parole, ottimi e discreti gli interpreti di appoggio (Giorgio Tirabassi, misurato come non mai, Maya Sansa, luminosa e efficace, anche se non indispensabile, Luisa de Santis, protagonista forse del momento più surreale, quando racconta il sogno in cui papa Wojtyła l’aveva invitata a sciare con lui). Ma naturalmente il film non avrebbe alcun senso se non ci fosse il viso trasognato e “ francescano” di Ascanio Celestini (che ha scelto con molta finezza anche il suo doppio infantile) che si fa seguire dall’inizio alla fine; staremmo per dire, riprendendo l’osservazione di apertura, dalla prima all’ultima parola. Parola che le immagini rispettano ma alla quale non aggiungono emozione e risonanza.

 

La pecora nera
cast cast & credits
 






 
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