Les bruits des glaçons del regista francese Bertrand Blier ha aperto le “Giornate degli Autori” allinsegna dellumorismo nero, della farsa e dei fantasmi (veri o presunti) che assillano la vita umana senza lasciare speranze: un inizio inaspettato e inconsueto quello della sezione veneziana che, insieme a “Orizzonti”, è dedicata al cinema più creativo e sperimentale.
Al centro della storia cè uno scrittore che ha da tempo superato lapice del successo professionale e con una vita che sembra ormai aver preso il binario sbagliato: pur vivendo in una splendida villa in campagna, è stato lasciato ormai da molti anni dalla moglie (che si è portata con sé il figlio), ha perso la vena creativa e affoga le sue pene nellalcol (il vino bianco è lassiduo compagno delle sue giornate) e tra le braccia di una giovanissima ragazza russa. A consolarlo cè solo la presenza discreta e penetrante della domestica/custode della villa, la serafica Louisa. Un giorno irrompono nella decadente quotidianità di questi personaggi due petulanti e oscure presenze: un uomo e una donna, affatto invisibili, che incarnano rispettivamente i loro cancri, uno al cervello e uno al seno. Inizia così una strana convivenza, accanto alla quale si intreccia la storia damore tra lo scrittore e Louisa.
Blier ama giocare con il gusto del paradosso (si possono antropomorfizzare le malattie, o addirittura la morte?) trasformando i due personaggi che rappresentano il cancro in compagni di vita, consiglieri, a volte amici, presenze che alleviano (è qui il paradosso più forte) limmensa solitudine e il senso di sconfitta che sembrano abitare la villa. Se le relazioni umane implodono («la vita ha un senso?» – si chiede il figlio dello scrittore) e diventano impossibili, allora il passaggio attraverso una malattia dilaniante e ossessiva, oltre che dolorosa, diventa una tappa necessaria per riconquistare la libertà. Nel finale è proprio questo lo snodo che scandisce la “redenzione” dei personaggi, che con un inganno in forma di pochade si liberano dei loro incubi e delle loro metastasi interiori, pur non rinunciando ai loro vizi più ovvi.
Blier non risparmia nulla allo spettatore, gioca a carte scoperte sfruttando tutto quello che il cinema gli permette di usare: i flashback, gli sguardi in macchina, le incongruenze improvvise del montaggio, lalternanza tra il tono farsesco e quello drammatico, un uso volutamente didascalico dei brani musicali, il tutto per imbastire una sorta di elzeviro per immagini in cui sparatorie, risse, sesso e lacrime diventano un pastiche a uso e consumo dei personaggi. Ciò che si vede (o non si vede) e il relativo senso esatto delle cose sembrano diventare solo una variante uguale a tante altre cose della vita, quasi un cubetto di ghiaccio che si scioglie nellindistinto di una coppa per bottiglie.
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