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Favole amare

di Assunta Petrosillo
  La fabbrica dei sogni
Data di pubblicazione su web 21/06/2010  
Il teatro di Davide Iodice racconta la realtà: quella cruda e maleodorante. Il regista napoletano dopo aver trascorso un periodo di studio all’interno del Dormitorio Pubblico di Napoli mette in scena le storie degli ultimi, degli emarginati, dei diseredati che vivono lì dentro. Per mesi ha condiviso con loro la quotidianità: li ha osservati, studiati, conosciuti, rispettati, amati fino a trasformarli in attori, drammaturghi. Il giovane regista ha scritto con loro la trama di questo spettacolo, basandosi su sogni, memorie, biografie, poesie. Si tratta di un primo passo di un progetto teatrale più vasto intitolato Della stessa sostanza dei sogni, nel quale lo scopo principale è scandagliare la dimensione onirica.

Non una ma tante storie quelle messe in scena ne La fabbrica dei sogni. Un luogo ‘altro’, non quello istituzionalmente riconosciuto. Un edifico enorme, le cui mura potrebbero raccontare mille storie diverse di abbandoni, lutto, disperazione, morte. E Iodice lo fa con pathos e violenza. Un luogo reale che ospita 110 persone, di cui 15 donne e con 18 letti disponibili per gli arrivi d’emergenza. Un luogo dove ‘stare’, non un cartone sul quale dormire nelle notti fredde o calde della Napoli dei giorni nostri. Il regista denuncia una realtà, non rappresenta una storia scritta o immaginata. Le trame sono le stesse vite dei protagonisti, gente semplice, ridotta e costretta a vivere in stanzoni, e non in una casa. Si tratta di sogni infranti, di favole amare ma vere, reali. Come in una sorta di inferno dantesco, il regista ci pone quale guida negli inferi terresti un Virgilio moderno. Un uomo in  jeans e t-shirt, con visiera e zainetto sulle spalle – il signor Luciano – un poeta moderno, dagli occhi di chi ha visto tanto e troppo. Lui per primo ci racconterà la sua storia, tirando fuori dal suo sacco il cappello di Anthony, il suo attore preferito, perché come lui è costretto a vivere in una riserva di indiani. Recita e scrive poesie, ricordandoci che lui non è il re dei suoi sogni. Un viaggio all’inferno, dall’odore di carne che brucia, un viaggio espiativo alla ricerca di sogni. Luciano mostrandoci il frutto dei suoi sogni, una mela dorata, ci condurrà in una sala da pranzo. Nella sala ad aspettarci dodici commensali (i veri protagonisti misti agli attori)  seduti frontalmente come nell’Ultima cena di Leonardo da Vinci, con alle spalle una donna in abito nuziale. Una tavola imbandita con tovaglie, posate e cibo di cartone. Per ogni commensale un piatto con all’interno un simbolo che riconduce metaforicamente alla loro storia passata: una sedia per un falegname, una lettera per chi scrive al marito ormai defunto, una sagoma di una donna per un marito vedovo. Al soffitto un lungo drappo bianco, come una sorta di velo da sposa,  sospeso, quasi a contenere l’innocenza dei giorni perduti.


Una scena dello spettacolo

Gradualmente le voci prendono corpo come le storie. Il primo a parlare è il signor Alberto, un uomo di mezza età, dal volto segnato, con degli intensi e scuri occhi. Racconta la sua storia per sequenze, come in un film. Lui padre di famiglia, si ritrova in carcere e con una figlia morta per overdose. Peppe, il portiere, cinquantenne con gli occhialini sul naso e una croce d’oro al collo, si ritrova in quel posto dopo la morte della moglie, perché come lui stesso dice «la sua testa è esplosa». Anna, una donna di mezza età, dai capelli biondi raccolti e dai colori chiari, con occhiali da sole sulla fronte e maglietta verde-gialla che parla con il marito morto tramite delle lettere. Giovanni, una storia la sua dal sapore del legno, la cui vita somiglia ad un mobile pregiato con una gamba rotta. Il vino lo condurrà in questo posto che lui definisce «la pancia della balena». Altri racconti si susseguono, storie di vite violate, di tentati suicidi, di rabbia e solitudine.

Alla fine dei racconti, i commensali si baciano tra loro, e non come falsi Giuda col Cristo, ma come tanti cristi ormai in croce.  Luciano, rimasto al lato della tavola, si alza e prendendo una mela dorata dal tavolo c’invita a seguirlo. Lungo il percorso c’imbattiamo in statue di Madonne, di Cristi deposti, di santi, e di una bibbia posta su un tavolo accanto alla locandina dello spettacolo. La realtà e la finzione si tengono la mano. Entriamo in una grande stanza nella quale ritroviamo gli attori. Sulla scena l’albero dalle mele dorate, al soffitto un velo nero, presagio di morte, nefandezza, tenebre. In quel luogo va in scena la morte. Una scenografia scarna, fatta di rete metalliche per materassi che diventano sipario, letto di morte, recinto. Al centro, sdraiato sul pavimento, un uomo dal volto coperto con una maschera da orso. Pian piano ne arrivano altri con la maschera da cavallo, coniglio, pecora, uccello. Tutti insieme costruiscono una casa recintata con quelle reti e raccontano i giorni felici dell’infanzia perduta, dei sorrisi, dei giochi. Il tutto enfatizzato da musica e canti soavi. Ed ecco che la pace, la gioia familiare è burrascosamente interrotta dall’angelo nero della morte che arriva silente, con grosse ali nere, dai doppi piedi e dallo sguardo e dal ghigno inquietanti. L’angelo maligno distrugge tutto, batte ferocemente i piedi a terra, e con un orologio nelle mani segna il tempo con quel suo tic tac lento, impietoso, assassino. Incita i membri della famiglia ad andar via, uno alla volta, mentre la casa cade in pezzi. E come un Dracula moderno morde sul collo e al petto le sue vittime pervaso da una luce verde rarefatta, che invade la scena e inquieta lo spettatore. Intanto quei piccoli e docili animaletti  perdono la maschera e si ritrovano su quelli reti metalliche ad ansimare, a disperarsi. La sposa, che dall’inizio segue la storia e i personaggi, viene morsa dall’angelo e vomita il male, riuscendo per un attimo a liberarsene e curare gli altri appena giunti in quel posto. L’angelo non si fa attendere molto, ritorna prima nella violenza su una donna, in una notte plumbea, poi nella violenza di un padre di famiglia che, a tavola con i suoi, urla e picchia la moglie. La sposa si avvicina all’albero delle mele dorate, ma non ha più acqua per annaffiarle, le speranze sono morte insieme ai sogni. Il tutto mimato, in un gioco assordante di suoni e gemiti.  Brave le attrici che riescono a calarsi nella parte, trasmettendo un forte senso di smarrimento e fastidio.


Una scena dello spettacolo

E su un tavolo mentre il libro della vita brucia, e tutt’intorno l’aria diviene irrespirabile, un clown e un funambolo cercano di mantenersi in equilibrio. Ma la morte incombe. Finalmente una visione, un sogno: una donna incinta ci fa vedere sul muro frontale, nell’ecografia, una nuova vita che diventa parte dell’infinito, dei pianeti, delle stelle, delle case, dei palazzi. Sentiamo i vagiti di questa nuova vita, un cuore che batte su un letto dai piedi fatti di radici. Ma la sostanza dei  sogni è effimera, evanescente, l’angelo malefico uccide la nuova vita. E Luciano, distrutto, implora poeticamente la sua anima chiedendole di liberarlo dai sogni.  Il nostro ‘Virgilio’ ci accompagna in un altro luogo, verso l’esterno, dove si descrive la favola dell’utopia, dove le sagome di persone e di animali di cartone – offerti in prospettiva allo spettatore – conducono come in una sorta di Betania, dove al posto del Cristo nascente ritroviamo i nostri attori cantare un inno alla vita dal sapore felliniano.

Al lato alla grotta dell’utopia, su un muro, scorrono le immagini di volti, occhi, bocche, mani che pregano, pugni chiusi. Immagini reali dei veri protagonisti. La sposa intona una ninna nanna in dialetto napoletano ricordandoci che «’o lupo s’ha magnato ’a pecurella».  Alla fine si balla mentre dalle finestre dell’edificio gli altri ospiti stanno a guardare e ad applaudire la loro stessa vita.

Uno spettacolo riuscito, un appello alle nostre coscienze e soprattutto ai nostri politici. Ci uniamo alla richiesta - appello del protagonista Luciano: costruiamo una lavanderia per gli ospiti del dormitorio. Ci sembra incredibile e poco dignitoso – per non dire indecoroso – che 110 persone, già senza famiglia e senza una casa, non abbiano un posto dove lavare i propri abiti!

La fabbrica dei sogni
cast cast & credits
 



 
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