Andare a vedere unopera a Weimar – anche se lattuale teatro non è quello in cui Goethe e Schiller fissarono il loro quartier generale, e dove Liszt diresse la “prima” del Lohengrin – innesca nello spettatore con un minimo di sensibilità umanistica un intreccio di memorie ed emozioni che, già da sole, imprimono plusvalore allo spettacolo. Forse però solo a Weimar era possibile concepire una messinscena come questa, così intimamente legata alla storia cittadina e, di riflesso, alla storia tedesca: un Wildschütz di Albert Lortzing ambientato – anziché nel generico luogo campestre di una Germania dinizio Ottocento prevista dal libretto – proprio nella città turingia, in quei cruciali giorni del 1933 che videro la fine dellesperienza repubblicana di Weimar e linfausto inizio del Terzo Reich. Se poi si aggiunge che alla radice dellopera cè una pièce oggi dimenticata, ma popolarissima in quel 1842 in cui Lortzing attese alla composizione, di August von Kotzebue, a sua volta nato e cresciuto a Weimar, il puzzle delle memorie storiche si arricchisce dun ulteriore tassello.
Una scena
Lo spostamento depoca impresso dalla regia di Anthony Pilavachi e dalla drammaturgia di Michael Dissmeier implica uno slittamento di prospettiva: Der Wildschütz (ovvero il cacciatore di frodo, il bracconiere) reca come sottotitolo La voce della natura e difatti – dietro lintelaiatura di travestimenti, agnizioni e coppie ricomposte – la morale della pochade è una satira del concetto di “naturalità” di Rousseau e di un certo filone pedagogico dinizio Ottocento, detestato dallo scalcinato maestro di scuola protagonista dellopera, che alla naturalitas rousseauiana ancora sispirava. Sicché quando il conte e la contessa scopriranno di aver fatto la corte, rispettivamente, alla propria sorella e al proprio fratello travestiti, la giustificazione – nonostante lamaro in bocca per lo smacco – sarà belle pronta: era «die Stimme der Natur» che parlava ai loro affetti. Di questo retroterra, portando la vicenda allavvio del cancellierato di Hitler, resta poca traccia. Piuttosto, la voce della natura diventa linizio della fine: un ultimo barlume di democrazia prima che la repubblica di Weimar ceda il passo al nazismo e, con esso, alla voce più contro natura della storia dellumanità.
Si potrebbe pensare a una riscrittura invadente, ma non è così: la struttura a dialoghi parlati cara alla vecchia komische Oper tedesca, cui Lortzing continuava a mantenersi fedele, consente una manipolazione del testo recitato senza alterare le ragioni della musica. Lunica forzatura è una certa insistenza sullambiguità dovuta ai numerosi travestimenti, che qui sembrerebbe instillare una sorta di pansessualità (padrona e cameriera, mascherate da uomo, in tale veste paiono provare unattrazione reciproca), ma che a Lortzing, cantore di una medietas dove non cè spazio né per Don Giovanni né per Cherubino, forse interessava poco. Che si tratti di una rilettura sostanziale ma non intrusiva è confermato dal fatto che Pilavachi, sotto ogni altro aspetto, impagina una regia tradizionale, ligia alle didascalie del libretto e attenta ai meccanismi teatrali: a cominciare da quella scena del biliardo (tenore e baritono impegnati nella partita, il soprano come posta in gioco, il buffo maestro di scuola a fare da terzo – anzi, quarto – incomodo) che è il momento più geniale di questa “commedia umana”, pennellata da Lortzing con unempatia verso i personaggi, compresi i più ridicoli, che potremmo definire donizettiana.
Una scena
Di questautore tanto importante quanto tutto da scoprire per i teatri italiani la bacchetta di Martin Hoff ha valorizzato più i fraseggi morbidi e distesi che la mobilità ritmica, più il retrogusto malinconico-elegiaco che il sapore farsesco. LOrchestra del Nationaltheater di Weimar lha assecondato molto bene, così come il coro, che in Der Wildschütz svolge un vero e proprio ruolo commentatore della vicenda. Si tratta comunque di una classica “opera per cantanti”, con cinque protagonisti e almeno altri due personaggi fortemente caratterizzati. A far da mattatore lo stolido Baculus, insegnante asinino e bracconiere per caso: uno di quei colossali ruoli per basso comico, e ce ne saranno molti altri nella parabola operistica di Lortzing, in cui il compositore ebbe modo di esprimere il proprio talento di drammaturgo vocale. Philipp Meierhöfer – maschera alla Groucho Marx, impettito come Buster Keaton – ha voce forse troppo leggera, compensata però dalla morbidezza dellemissione e da un fraseggio di notevole mobilità espressiva: sicché, soprattutto sulla distanza, il personaggio acquista la giusta statura.
Più cospicui, anche se meno rifiniti, i mezzi del baritono Uwe Schenker-Primus: robustissima vocalità “orizzontale” – più espansa che acuta – che si flette con qualche difficoltà, ma non senza una sostanziale correttezza, al canto soffice e trasognato della grande aria del conte nel terzo atto, musicalmente la pagina più ispirata dellopera. Con le sue incertezze dintonazione il tenore Szabolcs Brickner è invece lanello debole del versante maschile; laddove quello femminile trova in Heike Porstein un primo soprano di buona caratura lirica, in Sandra Schütt una “seconda donna” di voce assai più contenuta, ma scatenata sul piano scenico, e in Anna Buschbeck (la cameriera en travesti che turba maschi e femmine) una simpatica caratterista. Il personaggio della contessa non ha molto spazio, e Lortzing la priva di momenti solistici. Eppure questa figura dintellettuale velleitaria e moglie cornificata ma non doma, con i pruriti della Fidalma cimarosiana e i risentimenti della Marcellina mozartiana, è un cammeo memorabile: e il mezzosoprano Christine Hansmann lo pennella a regola darte.
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