Quella tra Mariangela Melato e il Teatro Stabile di Genova è una lunga collaborazione, che da diciotto anni vede lattrice confrontarsi con svariati registi e diverse scelte drammaturgiche, in un percorso che lha portata a raggiungere una rara profondità interpretativa. È recente, tuttavia, lavvicinamento al monologo da parte della Melato, che per lungo tempo ha preferito interagire sul palcoscenico con altri attori. Dopo lesperienza di Sola me ne vo, linterprete torna adesso con un soliloquio di tuttaltro stampo: mentre nel precedente, infatti, si era confrontata per la prima volta con la commedia musicale e aveva ballato e cantato, qui si trova di fronte a un impegno completamente diverso, che si concretizza nel confronto con un testo dintensa drammaticità.
La voglia di proseguire il proprio percorso di ricerca ha indotto la Melato ad accogliere di buon grado la proposta dinterpretare ladattamento del Dolore di Marguerite Duras. Il testo della scrittrice francese consiste in una raccolta di riflessioni e ricordi autobiografici, che tracciano il suo tragico vissuto nel periodo della seconda guerra mondiale e delloccupazione tedesca. Dopo avere preso parte alla resistenza antinazista con il marito Robert e dopo la deportazione di questultimo a Dachau, lautrice visse, tra il 1944 e il 1945, un lungo e straziante periodo di attesa, che raccontò in due diari. Da questi scritti, ben quarantanni dopo, nacque Il Dolore. La Melato, insieme al regista dello spettacolo, Massimo Luconi, ha lavorato alladattamento teatrale di un materiale narrativo che si distingue per la violenza e la secchezza della scrittura: racconti, memorie e sensazioni costituiscono lopera della Duras e vengono riportati sulla scena facendo leva proprio sulla forza del linguaggio e delle immagini. Lobiettivo è quello di rappresentare la realtà interiore della protagonista, prima ancora che quella dei fatti.
Sul fondale scuro si stagliano le luci che illuminano porzioni di palcoscenico, fendendolo in modo netto; in primo piano, linterprete, vestita di una semplice tuta nera, si muove attraverso uno spazio scenico in cui oggetti sparsi (libri, vecchie scarpe, pile di quotidiani) e “scheletri” di alberi evocano il caos e lo strazio generato dalla guerra, ma anche il disordine del pensiero della protagonista. Lansia che trapela dallattesa della donna si carica di significato nellinterpretazione della Melato, le cui parole giungono nette e graffianti. Contribuiscono in questo senso anche pochi ed efficaci accorgimenti sonori e visivi: si è già accennato al violento uso delle luci che irrompono sul palco, ma anche la musica, le voci della folla nelle strade di Parigi e il frastuono della guerra invadono la scena in modo del tutto inaspettato, generando nello spettatore un senso di spaesamento. Gli artifici scenici non mettono tuttavia in secondo piano la recitazione dellattrice, di cui, anzi, esaltano i tratti peculiari.
Va precisato che la Melato inizia il monologo con uninterpretazione apparentemente sottotono: la voce è soffusa, quasi sospirata, ma presto risulta evidente che si tratta di una scelta ben precisa. Infatti, il registro lentamente cambia e improvvisi sbalzi di tono spiazzano lo spettatore. La Melato si addentra così nel dramma della Duras, rendendolo proprio. Lo spettacolo procede e langoscia della protagonista si fa sempre più intensa: lattrice si anima e si concede con generosità al pubblico, con un approccio diretto e coinvolgente. Interpella gli spettatori quando sinterroga su una scelta che è frutto del disorientamento determinato dal suo stato di tensione: si domanda, infatti, se ormai in lei sia maggiore lodio per i tedeschi o lamore per il marito Robert. Lattesa del ritorno delluomo si è trasformata impercettibilmente in desiderio della caduta di Berlino. La scoperta che il compagno vive e che potrebbe tornare non basta ad alleviare il dolore, che persiste nella successiva malattia di Robert e nellassistenza della donna. La speranza, che sia quella di un ritorno o quella di una guarigione, è pertanto saldamente connessa al dolore. La Melato rappresenta al meglio la sopportazione di questa condizione, in quanto, come lei stessa ha dichiarato, è prerogativa di molte donne «quel saper attendere, quel rimuginare sullattesa, quel essere fragilissime nella sensazione dellabbandono, della paura del dolore, ma insieme in realtà tenaci come solo le donne sanno essere».
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