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Mazzini, il prigioniero della rivoluzione

di Roberto Alonge
  Mazzini, prigioniero della rivoluzione
Data di pubblicazione su web 19/04/2010  

MAZZINI, IL PRIGIONIERO DELLA RIVOLUZIONE

Lungo monologo  in otto quadri

 

IMPIANTO SCENOGRAFICO

Stanza semplice ma essenziale: un tavolo in centro, con sedia e lampada; accanto, a destra,  una poltrona. Sulla parete di destra un camino, accanto al quale un tavolino basso su cui si trovano bottiglie di liquore, vino, teiera, un paio di  bicchieri e di tazze, una grande forma di pane con un coltello  infilato in cima. Sulla parete di sinistra una cassettiera, una specchiera a muro con pettine e spazzole, un  appendiabiti, colmo di diversi abiti e cappelli.  Sul muro di fondo una finestra chiusa da un'anta, e una grossa carta geografica dell’Italia, con la divisione degli stati alla data del 1853. Sulla parte anteriore del tavolo la bandiera inglese, come fosse una tovaglia.  Sulla sinistra, nell’angolo in fondo, porta, e, accanto alla porta, una valigia posata per terra.

Destra e sinistra si intendono sempre rispetto allo spettatore.

L’indicazione Buio, in didascalia, evidenzia un lasso di tempo che separa una scena dall’altra. S’intende che, dopo il buio, ritorna ogni volta la luce.

Prima di ogni quadro il sipario è chiuso. Sul sipario chiuso la proiezione di una sorta di cartello brechtiano, a indicare luogo e tempo del quadro, nonché un brevissimo riassunto della scena (testo qui riprodotto in maiuscolo).

I Quadro

1853. MAZZINI IN ESILIO A LONDRA, “IL PRIGIONIERO DELLA RIVOLUZUIONE”: PASSA LA VITA SEDUTO AL TAVOLO, DALLA MATTINA ALLA SERA, INTENTO A SCRIVERE INFINITE LETTERE, PER TESSERE LA RETE COSPIRATIVA E INSURREZIONALE IN ITALIA. NEL GENNAIO VA  IN SVIZZERA, PER COORDINARE LA RIVOLTA (FALLITA) DI MILANO DEL 6 FEBBRAIO.
(Mazzini è seduto dietro il  tavolo, rivolto verso gli spettatori. Lampada accesa. Notte).

Giuseppe Mazzini nel suo studio
 

MAZZINI C’è una straordinaria quantità di lavoro, che non si può trascurare, senza pericolo per le persone coinvolte nella nostra lotta. Sono costretto a rimanere seduto allo scrittoio nella mia piccola stanza, dalle 9 della mattina alle 10 di sera, quando vado a far visita a qualche intimo amico dalla parte di King’s Road più vicina a me. La mia vita è quella del prigioniero. (Pausa). E dico, di quando – come adesso – sono qui, libero nella libera Inghilterra. Peggio, molto peggio, quando sono in azione, sul campo. Allora, sto chiuso in una  stanza –  scrivendo biglietti, lettere, istruzioni –  dalle 9 della mattina sino alle 2 dopo la mezzanotte, con l’interruzione di tre quarti d’ora per mangiare;  ricevo venti lettere al giorno, per metà sconfortanti, per metà vibranti d’entusiasmo. Solo di notte – per ragioni di sicurezza – esco di casa, a prendere un po’ d’aria, a fumare il mio sigaro buono. (Dal taschino della giacca tira fuori un sigaro che odora da una estremità e poi rimette al suo posto. Si alza e si dirige al camino, per scaldarsi l’acqua e preparasi un the che berrà camminando e parlando). Una volta sono stato sei mesi filati in una stessa stanza, senza poter né vedere né parlare con nessuno. Per non impazzire ho cominciato a parlare da solo. Da allora, parlo spesso da solo. (Pausa). Peraltro, dopo tanto  di questa vita, taccio sovente, perché ho l’anima amara, annoiata, e anche nel contatto personale starei giornate senz’aprir bocca. (Pausa).  A Milano io non ho spronato, né sprono.  Faranno? Non faranno? Non lo so. Ma si è mossa la parte popolana, gli operai. Per vent’anni siamo andati dicendo che una nazione deve emanciparsi con le proprie forze e siffatte bellissime cose; la parte che nel ‘47 i migliori dicevano incapace di fare, e che invece diede una solenne smentita ai ragionatori; quella parte, ora, vuol fare. (Pausa). Quando mi fui convinto che non erano semplici ebollizioni di taverna, ma concetti che avevano del serio, stimai debito mio l’accostarmi, e nel caso in cui persistessero, dare aiuto quanto potevo. D’altro lato, non sarò io di certo disposto a smentir la mia fede, e dopo il ‘48 e il ’49 a poter   dire a quel popolo: l’iniziativa non può venire che dalla Francia.

(Ha finito di bere il the; posa la tazza sul tavolino accanto al camino. Va all’appendiabiti e comincia ad abbigliarsi variamente,  guardandosi compiaciuto nella specchiera via via che completa il suo travestimento).

Ho diversi abiti a mia disposizione,  alla bisogna… Il mio amico Gustavo Modena, attore celebre e repubblicano convinto, li chiama costumi di scena.  Lui dice che sono piuttosto bravo, un vero commediante. (Si getta addosso una cappa da donna lunga fino ai piedi e si pone in testa cappello da donna). Il meglio è quando mi travesto da donna, da zitellona inglese… tagliando la barba, ovviamente.  Ma questa volta devo passare il Gottardo, e siamo di gennaio. (Toglie l’acconciatura da donna e si traveste rapidamente da pastore protestante). Andrà meglio così. Per fortuna parlo bene l’inglese. Sarò un pastore protestante, e fingerò di non capire che poche parole di francese.  La cosa migliore, con la polizia francese, che è quella più accanita a darmi la caccia. (Da un cassetto del tavolo tira fuori tre passaporti che si passa fra le mani). Al momento ho tre passaporti, uno americano e due inglesi. Reverend  Claude Morris,  andrà benissimo.

(Buio. Quando la luce ritorna Mazzini è di nuovo seduto al tavolo, come prima, stesso spazio, ma siamo ovviamente in Svizzera e non più a Londra, benché lo spazio scenico sia lo stesso. Manca  solo la bandiera inglese sul davanti del tavolo. Mazzini è vestito normalmente, ha abbandonato cioè il travestimento da pastore protestante, ma ha intorno al collo un enorme scialle di lana spessa. Sta scrivendo e legge lentamente, a mano a mano che scrive).

Dear Caroline, I am here still safe, but of course a prisoner in my room”. (Ripete traducendo in italiano, e proseguendo). “Cara Caroline, sono qui, ancora sano e salvo, ma, naturalmente, prigioniero nella mia stanza”. (Si alza, si avvicina all’appendiabiti e vi depone l’ampio scialle. Continua parlando da solo, a voce alta). Ditelo pure, a Bessie, che sul San Gottardo, in slitta aperta, sarei morto assiderato, in questo gennaio così nevoso e freddo, se non mi fossi imbacuccato nel suo scialle  meraviglioso,  wonderful wrapper.  La slitta sbalza da destra a sinistra, da sinistra a destra, senza che uno se l’aspetti, continuamente, con-ti-nua-men-te. E poi, venitemi a parlare della vettura londinese, quando svolta a Park Lane! Da una parte non vi sono che precipizi, e la strada da percorrere è davvero ben stretta. (Scalda l’acqua sul camino e si fa il the, che comincia a sorseggiare, come per riscaldarsi, al ricordo di tanto freddo, camminando su e giù per la stanza). La stagione si addice alle Alpi, che ancora una volta mi sono apparse, malgrado il freddo e il vento, il più sublime poema dell’Eternità che sia stato scritto. È poesia che guida all’azione; severa e rude come il dovere; forte come la fede; pura e serena come la Speranza e l’Immortalità.

(Pausa, si avvicina alla carta geografica dell’Italia, che contempla compiaciuto, ora guardando il pubblico, ora dando le spalle per piantare sulla carta  delle bandierine rosse che estrae dalle tasche della sua giacca. Molto eccitato in tutta questa sequenza politica, salvo pause di ripensamento e di segreto scoramento, da cui però si riprende ogni volta con enfasi accresciuta).

Milano sarà il punto di avvio (pianta bandierina su Milano), ma è indispensabile –  perché la vittoria sia decisiva, splendida –  che la fiamma insurrezionale guizzi da un estremo all’altro sino in Sicilia. Quindi assolutamente necessaria la quasi simultaneità della mossa. (Pianta rapidamente, in successione quasi frenetica, altre bandierine: a Bologna, in Umbria, a Roma, in Sicilia). E questa mossa deve essere mossa di popolo. Dev’essere Vespro Italiano: quindi ha bisogno più d’arma bianca che d’altra. L’armi da guerra devono togliersi al nemico. (Riflessivo, guardando le bandierine che ha piantato). Ho scritto ai Fratelli dell’Umbria. Una commissione d’Insurrezione Centrale per il territorio romano si costituirà: date adesione: unificate il moto, quanto più potete. (Pausa). Ho scritto anche ai Fratelli di Sicilia. (Si ripete mentalmente quello che ha scritto ai Fratelli di Sicilia): “Se udite l’insurrezione trionfante afferrate  il momento, ed agite dovunque potete. (Pausa). A Garibaldi scrissi, chiamandolo a voi, da forse tre mesi; e la mia lettera doveva raggiungerlo in Lima. È probabile che egli giunga sollecito da voi”. (Pausa. Poi, in un estremo sussulto, eccitatissimo). La Spagna è prossima a un movimento generale più che probabile, prima del finire di questo mese. Ho ragguagli oltremodo propizi dalle province polacche. L’Europa intera è oggi come era nel ’48, in quella condizione di cose, nella quale una insurrezione nazionale non può rimanersi sola, ma è certa di dar moto ad altro!

(Buio. Quando torna la luce Mazzini è in proscenio, faccia al pubblico, in piedi, con cappotto e cappello, a un grado massimo di eccitazione, ma meno cerebrale, più viscerale, fisica).

5 febbraio. Sono a  Chiasso, sul confine. Entriamo probabilmente in azione domani. Il popolo vuol fare, ed io – il Cielo benedicendo, perché il popolo sia migliore di noi – aiuto e aiuterò come meglio posso. (Buio). Gli operai che dovevano condurmi a Milano si sono opposti al mio proposito. A loro è parsa non necessaria la mia presenza al primo sorgere, ma indispensabile il mio consiglio dopo.

(Buio. Pausa più lunga. Quando torna la luce, Mazzini sempre in proscenio, senza cappello, con il cappotto aperto, stazzonato, appare  esagitato, sull’orlo di una crisi di nervi).

Il piano è fallito! Non so ancora nulla delle cause, nulla delle perdite o delle probabilità rimaste; ma un primo tentativo ha avuto esito infelice. Io sono in salvo: non ho avuto tempo di giungere (Pausa). Di una massa organizzata, una ventesima parte soltanto si è mossa. Che cosa ha trattenuto tutto il resto? Che Dio trattenga Bologna dall’agire! (Buio). Il 9 febbraio hanno impiccati  otto milanesi, e uno fucilato per mancanza di forca. Due giorni dopo ne hanno impiccati altri quattro. Dei  400 popolani che avevano preso impegno di assaltare il Castello con i pugnali si raccolsero al luogo stabilito solo una trentina, e rinunciarono all’assalto, quando si resero conto di essere così in pochi. (Riprendendosi, di nuovo eccitato). Ma io  non ero né un pazzo né un visionario. Poteva esserci una regolare guerra di barricate, come nel ’48, a Milano.  Sono mancati i migliori, i valorosi e i forti, gli uomini che hanno visto Venezia resistere per 17 mesi, e una città aperta come Roma tener testa per due mesi a 30.000 soldati francesi. I miei compagni più validi, i militari, Medici, Cosenz, e tutti gli altri: politicamente parlando, sono stati loro  la causa principale del disastro. Non hanno avuto fiducia che il popolo si muovesse. Sono tutti schiavi del sogno –  per me immorale – della iniziativa francese. Vogliono che prima si muova la Francia, che si muova mezza Europa. È una viltà morale che non si può perdonare! (Pausa. Solo all’inizio leggermente autocritico). Cospiratori eterni, oggi per introdurre libri, domani per organizzare, dopodomani per opposizioni passive: abbiamo cacciato nei giovani idee e furore di patria, per poi assistere muti alle loro persecuzioni, al loro supplizio. Abbiamo fatto propaganda nel popolo, e propaganda di odio e di aspirazioni nazionali, ma per cosa? Per poi dirgli: Ora rassegnati, e aspetta la Francia. Per questo? (Pausa. Poi amaramente, distrutto). Sarebbe la vittoria del piccolo Lord, dell’odioso Conte di Cavour!”. (Va alla carta geografica e toglie lentamente, una dopo l’altra, tutte le bandierine che aveva piantato).

(Buio)

        

                     Una delle prime foto dal fronte scattate

                          dall'inglese Roger Fenton durante

                          la Guerra di Crimea (1853-1856)

                           da: www.milanofratricida.com

 

II Quadro

1856. LA GUERRA DI CRIMEA NON HA PORTATO RISULTATI PRATICI ALLA POLITICA DI CAVOUR. MAZZINI È SEMPRE A LONDRA, MA NEL MAGGIO 1857 SI SPOSTA A GENOVA, PER COORDINARE LA SPEDIZIONE DI PISACANE A SAPRI (ANCH’ESSA FALLITA).

(Sempre la bandiera inglese sul davanti del tavolo. Giorno. Seduto in poltrona, Mazzini sta finendo di leggere un giornale inglese, che tiene spalancato davanti a sé. Poi si alza e va a prepararsi il the, al solito modo, mentre comincia a parlare, un  po’ soddisfatto e un po’ amaro, ma sempre sul filo dell’ironia).

E così, il piccolo Lord, se ne è tornato dal Congresso di Parigi senza il becco di un quattrino in tasca. Con i sabaudi finiremo per rompere apertamente, ma per un poco ancora andiamo avanti così. (Pausa). D’altra parte, come può una Monarchia, stretta in lega con tutti i Governi esistenti, esistente essa stessa in virtù di certi trattati pubblici, rompere improvvisamente ogni patto, violare tutti i trattati, e strappare l’attuale carta d’Europa? Siamo noi che dobbiamo sorgere. La Monarchia può seguire, ma in nessun caso cominciare. (Pausa). Il problema è che, in Italia, tutti sono pronti a seguire, nessuno vuole  cominciare. (Pausa). Garibaldi e Medici si sono messi in testa di essere grandi uomini, e credono fermamente  che io abbia torto, e sia in tutto deficiente. Ma il Partito Monarchico non può prendere nessuna iniziativa; bisogna insistere su questo punto. Sin da quando ebbe termine la guerra di Crimea, appare visibile un progressivo movimento di tutte le intelligenze verso la nostra bandiera. Una insurrezione deve quindi avere origine dal popolo. Sintomi di un gran fermento sono visibili dappertutto; e basterebbe una scintilla a far divampare l’incendio nel Mezzogiorno. (Va al tavolo e rilegge rapidamente con l’occhio  una serie di lettere già aperte). Giuseppe Fanelli da Napoli… Propone un’operazione definita, concreta, pratica. L’accetto; me ne occupo subito, e sarà fatta. (Posa la lettera e ne prende un’altra). Carlo Pisacane, da Genova. (Riflette). Una lettera che mi spaventa, ma bisogna ardire. Il  Sud ha riempito l’Europa dei suoi lamenti. L’Europa era ed è tuttavia pronta a salutare plaudente e in parte aiutatrice il sorgere del Sud; ma incomincia a chiedersi se la terra dei vulcani viva ancora o è spenta. Incomincia a mormorare la fatale parola: “essi hanno alla fin fine quello che si meritano”. (Buio. Mazzini è seduto, sta scrivendo e legge lentamente, a mano a mano che scrive). “Dear, very dear Matilda, mi sento così mortificato di non poter mantenere la promessa! Ma proprio non posso. Ho avuto una chiamata telegrafica, che mi mette alla disperazione per tutto quello che ho da fare. Non posso disporre nemmeno di un’ora. Quando riceverete questa, sarò lontano. Pregate per l’Italia, e pregate per me, che io possa rivedervi tutti: voi siete come la patria dell’anima mia, il solo ed ultimo luogo dove desidero riposare”.

(Buio. Stessa stanza, ma senza la bandiera inglese. Siamo a Genova. Mazzini è davanti al camino e si scalda le mani al fuoco).

Sono giunto ieri notte, e ho trovato sei o sette dei miei uomini che mi aspettavano, sparsi qua e là alla stazione, pronti per ogni evenienza. Erano già parecchie notti
che venivano. Il viaggio è stato buono. Tutta la traversata delle Alpi è stata fatta in diligenza: la notte era fredda; soffiava forte il vento e nevicava. Siamo a maggio, ma nevicava. Sono arrivato proprio nel giorno in cui si celebrava l’anniversario dello Statuto piemontese. I treni erano affollatissimi, e gli hotels di Torino così pieni che non mi riuscii di trovare una camera. Non sapendo che fare, mi rifugiai  –  fino a una certa ora, in cui mi sarebbe stato possibile incontrare un amico – in una chiesa. Per le strade ho incontrato ogni sorta di gente, deputati, ufficiali inglesi reduci dalla Crimea, ecc., ma nessuno mi riconobbe. (Lunga pausa. Comincia a passeggiare nervosamente per la stanza). Io vi amo con grande tenerezza, Emilie, e ve lo mostrerei di più, se non provassi accoramento e rimorso, per aver grandemente contribuito ad allontanare in certa misura due esseri che avrei dato la vita per mantenere uniti. (Pausa). Ho già visto Pisacane e sette dei miei popolani. (Si china a raccogliere per terra  mozziconi di sigari e pezzi di carta e va a buttare il tutto  nel camino). Oh, se fossero un po’ più raffinati! È un vero tormento – per me – vedere il Dottore, Quadrio e tutti gli altri sputare in terra e buttare sistematicamente i mozziconi dei sigari sul pavimento, quando possono depositarli altrove. E lo stesso fanno con la carta bruciata o stracciata, e così cento altre piccole cose assai poco eleganti. Ma dev’essere in gran parte colpa delle loro donne. (Va al tavolo e, rimanendo in piedi controlla carte e documenti).  Tutto è pronto per il 10 giugno.

(Buio. Durante il buio rumore di tempesta sul mare, fortissima. Al tornare della luce Mazzini in proscenio, rivolto verso il pubblico, teso, disperato).

Pisacane  doveva imbarcarsi a Genova, sul piroscafo “Cagliari”; la nave che portava i moschetti e gli uomini – e che doveva incontrarsi con lui – fu sorpresa da una tempesta, e poté salvarsi solo gettando a mare i moschetti. Tuttavia persistemmo, e il 25 giugno tutto era di nuovo pronto ed eseguito. Il piroscafo fu catturato, i prigionieri dell’isola  di Ponza liberati e tutti i componenti la piccola spedizione sbarcati. Ma le province napoletane non si mossero; e la nobile banda fu lasciata sola a combattere per andare avanti. Maledetti i vili! (Pausa). Quanto alle insurrezioni di  Livorno e di Genova, le cause dell’insuccesso sono differenti, ma l’esito è egualmente tragico: 52 gli arrestati a Genova, e parecchi dei nostri sono ancora in pericolo. Degli arrestati, 42 sono operai di vario mestiere (facchini falegnami fabbri calzolai sarti), due sono domestici, due studenti, uno scritturale, un segretario, un commesso di negozio, un giornalista, due possidenti. Il mio è stato il fiasco più completo che sia mai successo. (Pausa). Mi è venuto un malore cutaneo universale: ho  avuto testa, fronte e tutto il corpo coperto di croste, di ascessi e che so io. La bile si è aperta una strada, credo, e tuttavia mi ha evitato una malattia seria.


Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini

 

III Quadro

1858-1859. MAZZINI È SEMPRE A LONDRA. SEGUE CON ATTENZIONE LO SVOLGIMENTO DELLA SECONDA GUERRA DI INDIPENDENZA, MA  L’IMPROVVISO ARMISTIZIO DI VILLAFRANCA LO FA TORNARE PRECIPITOSAMENTE IN ITALIA.

(Mazzini è seduto dietro il  tavolo, rivolto verso gli spettatori. Siamo   a Londra, e il tavolo presenta la bandiera inglese. Giorno. Mazzini sta scrivendo e legge lentamente, a mano a mano che scrive).  “Londra 4 gennaio  1858. Caro Pianciani, ringrazio con vero affetto la signora Pianciani e voi, per gli eccellenti sigari che avete voluto darmi, e che vado fumando, uno per giorno,  con vera  delizia. (Pausa. Come nel I quadro estrae un sigaro, che odora e poi ripone nella giacca). So anche come vostra moglie s’adopera e perora per la causa nostra, e ciò accresce la mia stima per lei. Son persuaso che avremo la guerra l’anno venturo, in Oriente e in Italia. La guerra, come intendono farla, sarà una cosa veramente terribile, e se avrà successo (dal loro punto di vista) rovinerà noi almeno  per vent’anni. Il concetto della guerra – e lo so positivamente, ho i miei informatori… – non è se non l’aggiunzione di una zona lombarda al Piemonte, e la concessione della Savoia e di Nizza alla Francia: la pace – sulla offerta della quale contano – abbandonerebbe tutto il Veneto all’Austria. Credenti, come noi siamo, nella stessa fede, è bene che ci conosciamo un po’ di più. Volete venire lunedì alle cinque a mangiare due maccheroni e un pezzo di carne con me alla Trattoria Angeloni, Warwich Street, Regent Street?”

(Buio. Al ritorno della luce Mazzini è sempre seduto dietro al tavolo. Poi si alza e viene in proscenio, parlando da solo, come sempre).

Sono veramente rattristato dello stato delle cose. Vedere che il ’48 è stato perfettamente inutile, che i nostri uomini migliori (Medici, Garibaldi e altri) rinunciano alla loro vecchia bandiera  e tradiscono la causa per portarla a distruzione e rovina, è un vero dolore. Mi sento nauseato all’estremo dallo spettacolo offerto dalla borghesia italiana. In quanto alle masse…  (Correggendosi). No, non devo esagerare il sentimento delle masse degli Italiani. Esse sono ingannate più che corrotte. Nessuno fa sapere loro quel che noi sappiamo. Si dice alle masse che il Piemonte si prepara a combattere per l’indipendenza e per l’unità d’Italia. Vedono fra i partigiani del Piemonte gli uomini che una volta sono stati i loro uomini migliori, Garibaldi, Medici e altri. E credono che questi uomini vigileranno a impedire qualsiasi tradimento. E non pensano neppure alla possibilità di dovere un giorno abbandonare i Veneti. Essi cedono al prestigio dell’aiuto promesso; ma i loro istinti sono buoni. La colpa, o piuttosto il delitto, va ricercato più in alto: in quegli amici che, dominati incessantemente dal terrore di dover sottomettere la loro indipendenza personale al mio comando, la gettano da parte – la loro indipendenza personale –  per cedere al volere di un re. La situazione è complessa,  veramente brutta. Cerco di fare quanto posso per trarne qualcosa di nobile; ma con ben poca speranza di successo. Soltanto, vorrei essere giovane. (Pausa). Ieri ho ricevuto una lunga lettera scritta da  Bertani a nome di Medici, Bixio ed altri, dove dichiaravano che essi avrebbero seguito e sostenuto il Governo Piemontese, che si sarebbero messi apertamente contro di me, se avessi continuato nell’attuale mia linea di condotta, e mi chiedevano con la massima disinvoltura di porre quanto avessi disponibile – in uomini e denaro – in mano loro, per quel fine. Ho risposto oggi con  una breve lettera, dicendo che non ero disposto a discutere con essi, che agli Italiani del 1848 diedi compianto; agli Italiani del 1859 darò disprezzo! Ma tutto questo è ben triste. (Buio). Il Re e Luigi Napoleone  sono entrati in Milano. (Pausa). Nondimeno, dobbiamo fare quel che possiamo. (Pausa. Uno scatto di energia volitiva). Sto navigando contro corrente. Potrebbe darsi che la vincessi; ma la corrente è forte, e io comincio ad essere debole.

(Buio. Durante il quale si sentiranno le voci di strilloni di giornali).

- La guerra è finita in Italia!

- Napoleone III pronto all’armistizio! Troppi morti nell’esercito francese!

- Cavour si dimette per protesta!

- Il Veneto non sarà liberato!

(Mazzini va al tavolino accanto al camino e si versa un bicchiere di vino che beve lentamente, mentre continua a parlare). Ora si apre una fase nuova. Ora è tempo che io vada in Italia. La valigia è sempre pronta. Io sono repubblicano e morrò tale. Ma quanti sanno delle opere mie, e dei miei scritti, sanno che da quando Vittorio Emanuele accennò di voler scendere nell’arena, né io né alcuno degli amici miei fiatammo più di repubblica. (Ha finito di bere; posa il bicchiere e comincia a fare i preparativi: prende la valigia, la pone sul tavolo, la apre: è già colma di abiti; vi aggiunge qualche libro,la chiude). Mi limitai a chiedere che invece di allearsi a Luigi Napoleone – traditore per natura e necessità di tirannide – il Re si alleasse con la nazione italiana, che lui poteva, volendo, sommuovere tutta. E a chiedere che invece di accennare ai diritti della fusione lombarda e al regno del Nord, si accennasse a Unità, e alla Corona d’Italia, che tutti avrebbero posto in capo a Vittorio Emanuele. (Dal cassetto del tavolo trae alcuni passaporti e ne sceglie uno, che mette in tasca). Riservandoci, noi repubblicani, a norma di coscienza, di vivere sotto di lui o ritirarci a morire in esilio. E non solamente dichiarai tutto questo  dieci volte nel mio giornale, ma lo scrissi a tutti. (Toglie la bandiera inglese, la piega e la ripone nel cassetto del tavolo). Quanto è successo mi ha convinto sempre più che l’Unità non s’avrà mai se non per la via popolare repubblicana. Un re non vuole né può operare come un popolo. (Afferra la valigia e arriva sulla porta di uscita). Ma è necessario che le molte delusioni convincano di questo le moltitudini. (Buio).

 

                               L'entrata di Garibaldi in Napoli 

                     F.Wenzel, Napoli 7 settembre 1860, Litografia,

                              (Museo di S. Martino Napoli)

    

IV Quadro

AGOSTO 1859. MAZZINI, A FIRENZE, TENTA INVANO DI COINVOLGERE GARIBALDI NEL PROPRIO PROGETTO DI INVASIONE DELLO STATO PONTIFICIO, COLLEGATA ALLA EVENTUALE INSURREZIONE NEL REGNO DI NAPOLI.

(Giorno. Mazzini è seduto dietro il  tavolo, rivolto verso gli spettatori,  sta scrivendo e legge lentamente, a mano a mano che scrive). “Cara Emilie, sono a Firenze. Ero sceso alla Locanda della Luna, bene accolto come Charles Smith, ma ho dovuto andarmene  presto, perché ho saputo delle ricerche governative per trovarmi.  Che è tristissimo indizio. Nel ’48, libera Milano, io mi vi recai. C’era Carlo Alberto, contro il quale io avevo cospirato e scritto, mentre non ho fatto né l’una cosa né l’altra contro Vittorio Emanuele. A Milano, c’era un Governo Provvisorio composto di uomini ultra-moderati. Vissi nondimeno pubblicamente e rispettato all’Hotel della Bella Venezia sino al finir della guerra. Tutti sentivano che sopra un pezzo di terreno d’Italia libero dagli stranieri, e non retto dispoticamente, io avevo il diritto di vivere”. (Smette dei scrivere, si alza, viene alla ribalta). È questo dunque il progresso che si è compiuto dal ’48 a oggi? (Pausa. Passeggia nervosamente. Si mette  a piantare bandierine rosse – che estrae al solito dalle tasche della sua giacca – sulla carta d’Italia, a mano a mano che espone il suo piano, evocando i vari luoghi geografici: Genova, Lombardia, Marche, Umbria, Abruzzi, Sicilia, Napoli). I nostri hanno l’intesa. In Genova, in Lombardia, dappertutto. E poi tutti anelano. Una massa di elementi si precipita sulle nostre orme. Avremo un esercito. Se con otto o nove o diecimila uomini – passando per  le Marche e l’Umbria  – entriamo negli Abruzzi, avremo simultaneamente l’insurrezione della Sicilia; è preparata, pronta.   Ne ho tutti i dati più positivi: la Sicilia insorgerà – se non prima – all’annunzio della nostra mossa. Il Regno di Napoli sarà fra due assalti. L’insurrezione del Regno avrà allora tutta la probabilità. Parola d’ordine al moto sarebbe: Italia, Unità Nazionale. Non altro. Io accompagnerò la colonna, senza apparire con atti pubblici fino alla frontiera degli Abruzzi. Là il mio nome è influente, e firmerei io, entrando, il proclama. Ma se non dovesse giovare, io  seguirei la marcia ignoto. So che il generale Garibaldi e quelli che lo circondano hanno la stessa idea, ma ciò che io temo è che egli s’illuda di aspettare che i Governi attuali prendano l’iniziativa dell’operazione. Ora, chi li conosce sa che questo non avverrà mai. Trasciniamoli, e seguiranno. Diversamente,  bisognerà rovesciarli. (Tornando all’idea di prima). I paesi del Centro, il Lombardo, Genova sono preparati tutti all’idea; seconderanno i nostri, da tutti i punti si mobiliteranno rapidamente sul Centro. Sarà una seconda iniziativa italiana. Se riusciamo a far che l’insurrezione trionfi nel Regno di Napoli,  possiamo parlare da potenza a potenza. (Riflettendo, spiegando a sé stesso). Significherebbe un esercito di 140.000 uomini che passa – cambiando semplicemente i capi – nelle nostre mani. Significherebbe una bella flotta di navi da guerra, un immenso materiale da guerra, e la nostra possibilità di dire subito alla Francia: “Abbiate la bontà di lasciarci liberi di noi stessi” (pianta una bandierina su Roma). Significherebbe  Unità e Libertà, e la riconquista di Venezia per terra e per mare (pianta una bandierina su Venezia).

(Buio. Mazzini è di nuovo dietro il tavolo, sta scrivendo e legge lentamente, a mano a mano che scrive).

My dear Caroline, una ventina di giorni fa, mi trovavo in uno stato di esaurimento e di disperazione tali, che fantasticavo di tornarmene da voi, in Inghilterra. (Pausa). Mi sento infelice e agitato come un leone in gabbia, e talvolta mi abbandono a un profondo scoraggiamento.  Sì, non sono soddisfatto dei miei Italiani. Moralmente, sono abbastanza buoni, aspirano all’Unità, ma intellettualmente sono pervertiti. Credono in tutto, in tutti, in ogni sogno, fuorché in sé stessi. (Pausa).  Vi è una completa solitudine nelle mie giornate. L’unica persona che veniva ogni giorno a trovarmi se ne è andata – beata lei – in campagna. Speravo provare l’emozione di una tempesta che sembrava imminente; ma dopo un debole brontolio di tuono, le nubi sono scomparse: anche il cielo è diventato moderato in questa mia terra… (Mazzini si alza, e va a prepararsi il the, alla solita maniera, che poi sorseggia,  muovendosi per la stanza). Mi cercano accanitamente, e hanno distribuito il mio ritratto ai gendarmi. In realtà  il mio arresto  li imbroglierebbe,  e il mio partire è tutto ciò che in effetti vogliono. Il Governo toscano è arrivato ad offrirmi un passaporto in bianco, ma l’ho rifiutato. Devo essere libero di assalirli, e non posso quindi accettare un debito di gratitudine. Generalmente parlando, io comincio a riguadagnare terreno, ma sarà un lavoro lento. Io sento più vergogna che irritazione. C’è malvagità nella minoranza che governa, codardia morale nei nostri uomini, ignoranza cieca nella massa del popolo. Il popolo crede che noi cerchiamo di proclamare la repubblica, e che allora l’Europa intera sorgerà in armi contro di noi. E se  lo sente ripetere ogni giorno. È orribile il modo con cui vanno ingannando sistematicamente le masse! Da un anno noi non parliamo di repubblica. Abbiamo protestato – per dignità, moralità e antiveggenza – contro l’alleanza con il dispotismo francese, ma abbiamo dichiarato sempre che accettavamo la Monarchia, se essa voleva l’Unità, e che avremmo combattuto con essa  e per essa. Sono, fui, sarò, anzi tutto, Unitario. Il sogno di tutta la mia vita è stata l’Unità; se può farsi con il Re, si faccia. (Pausa). Alcune volte non ne posso più (siede in poltrona); alcune altre, quando odo il popolo – ingannato –  credermi  il diavolo, avverso al bene d’Italia, mi viene in mente Giovanni Huss, che sul rogo, vedendo un contadino aggiunger legna a legna, si contentò di dire: O sancta simplicitas!  (Lunga pausa). Se scrivo di raro, amiche mie inglesi, non è perché io non desideri scrivervi, ma perché non ho fede nella posta. Parecchie lettere mie sono andate nelle mani della polizia. Fui e sono malaticcio; è inevitabile. Quando per circa trent’anni, si è vissuto prigioniero ad un tavolo, senza passeggiare, senza distrazione alcuna, e rodendosi, si precipita, allorché si comincia a discendere. E sono certo d’andar giù a precipizio. (Lunga pausa. Si alza, posa la tazza del the sul tavolinetto). Ho scritto a Garibaldi. (Rammemora la lettera che gli ha scritto). “Non mi crediate troppo illuso. Per far cose grandi i popoli non aspettano mai d’essere virtuosi; sono le cose grandi, improvvisate da qualche Grande, che li fanno virtuosi; e una grande cosa, con voi, con 30.000 volontari, con il paese universalmente malcontento, può farsi”. (Con effetto di straniamento, prosegue implacabile, amaro). È un uomo debole oltre ogni dire; e basterà che il Re si firmi “vostro amico”, o che gli batta con la mano la spalla, per far di lui quel che vorrà. (Pausa lunghissima. Come parlando a sé stesso, rimproverandosi). Lo so, corro dietro a Garibaldi, per essere la settantesima volta da lui sconfessato. (Torna a sedersi dietro il tavolo, con un movimento lentissimo. Stancamente comincia a scrivere un’altra lettera mentre il buio inizia a calare, progressivamente). “Caro Garibaldi, non avete risposto all’ultima mia. Ma non importa. Vi scrivo pensando al paese. So quanto accadde tra voi e Torino:  le vostre proposte, le promesse, i rifiuti per debolezza… Ma se altri è debole, non dovete, non potete esserlo voi. Voi siete vincolato al paese, e non ne tradirete la fiducia e l’aspettazione. Volete avermi con voi – fratello e non capo, che è parola inintelligibile per due come noi,  che lavoriamo a raggiungere uno scopo come il nostro? Volete avere fiducia in me, nella mia lealtà, nel mio amore al paese, come io l’ho in voi? Ditemelo. Ma rispondetemi, vi prego!”.

 

(Buio)

 


Giuseppe Garibaldi dopo la battaglia di Milazzo, 20 luglio 1860

 

V Quadro

GENNAIO-MAGGIO 1860. MAZZINI È DI NUOVO A LONDRA. MA QUANDO GARIBALDI SALPA PER LA SICILIA CON I SUOI MILLE, MAZZINI PARTE IMMEDIATAMENTE PER GENOVA.

(Mazzini è sulla porta d’ingresso, in piedi, con  cappotto, cappello, la valigia in mano. È tornato a Londra.  Mattino).

Eccomi qui, dopo sette ore di mare orribile, che mi ha fatto soffrire al massimo grado, tanto  che mi lascerà rotto del tutto per almeno un paio di giorni. (Posa la valigia, si toglie cappello e  cappotto che appende, estrae dal cassetto  la bandiera inglese e la rimette sul davanti del tavolo,  svuota la valigia, ecc., con un procedimento opposto a quello registrato alla fine del quadro III). Ho trovato il paese cieco, guasto, travolto, in modo da non descriversi. Una propaganda di calunnie sistematiche da parte dei moderati ci aveva cacciato così in basso, anche rispetto a una grande parte di popolo… (Pausa). Carolina mia, no, non v’è stata nessuna possibilità di vedere il Re. Come avete potuto pensare a questo? Come sarebbe stato possibile? E quali speranze potete ancora nutrire al suo riguardo? Non vedete che riconosce come suoi governanti le potenze straniere? La mia lettera al Re fu l’ultimo passo che bisognava fare sul terreno delle proposte e delle concessioni. Prima, non volevano neppure leggere le cose firmate da me.  Noi accettiamo Monarchia, annessione, Corona d’Italia in capo di un Re che, secondo me, non la merita; tutto ciò che volete, fuorché una cosa: lo smembramento dell’Italia(Pausa). Garibaldi è travolto, affascinato non solo dal Re, ma da La Farina e dai moderati in genere; però,  comunque va riavvicinandosi a me. Certo, la sua debolezza rovina in un tratto  i migliori disegni. Il fascino che il Re esercita su di lui è fatale. E il Re tuttavia è schiavo di Luigi Napoleone. Garibaldi non ha persona vicina che influisca su di lui. Fra lui e me non corrono se non biglietti: promette, ma poi non mantiene. Medici e Bixio sono in Genova, Bertani è in Genova. (Lunga pausa). Garibaldi mi è nemico, non so perché. È tuttora l’uomo più potente sulle masse. Cavour non ha che uno scopo, aggiungere il Veneto alla monarchia, cedendo – secondo le promesse di Plombières – Savoia e Nizza. Al resto d’Italia non pensa né tanto né poco, benché ne ciarli con i nostri. Luigi Napoleone non ha che uno scopo, ottenere la Savoia, Nizza, e mantenere la supremazia francese in Italia. Quindi l’avversione all’Unità; e gli impicci posti alle annessioni. Cavour, non osando intraprendere guerra all’Austria con il solo esercito regolare, e non volendo appoggiarsi sull’insurrezione e sul popolo d’Italia, tende a trascinare Napoleone in una seconda guerra per il Veneto; Napoleone tende a schermirsene.  Ma Cavour mantiene l’alleanza per l’avversione  innata in lui   al popolo e alla rivoluzione. (Mazzini si è rimesso al tavolo, faccia  al pubblico, penna in mano, pronto a ricominciare la serie infinita delle sue lettere. Cala lentamente il buio). “A Nicola Fabrizi, in Malta. Caro Nicola, ho tutte le tue, fino a quella del 20 dicembre. Io speravo che dopo l’ultima tua, tu avessi capito che, fatta salva la febbre dell’azione che ho in corpo, non ho biasimo d’alcun genere per te. Vedo le incertezze e le contraddizioni, e mi pare che il torto sia loro e non tuo. Se Crispi viene a Londra, non viene per me; viene perché vuole vendere la sua mobilia. Gli uomini sono fatti così. Io manderei al diavolo cento mobilie. Ti confesso che sono nauseato. Nauseato della passività del popolo italiano, cominciando da noi. Nauseato dal vedere ripetere quasi da tutti che la turpe vigliacca vendita di Nizza e Savoia è un fatto compiuto e che il Parlamento deve con dolore ratificarlo, come il Re l’ha con dolore concesso, come Cavour lo concedeva con dolore a Plombières. Nauseato  di Garibaldi che torna a me quando non è più tempo. Nauseato dei nostri repubblicani che stanno con le armi sul braccio a tutelare il forte regno del Nord. Nauseato di tutto e di tutti. Ho i capelli bianchi, sono affranto; non vivrò più lungo tempo. Lascia, dunque, che non potendo fare altro, io dica almeno la verità. L’Italia è guasta più di quanto potessi credere: di materialismo, d’egoismo, di paura, ed è corrotta dalla propaganda moderata.  Mi chiedi se devi corrispondermi in cifra. Se le cose soccombono, avremo poco su che corrispondere. (Pausa) Credo che finirò per non corrispondere con anima viva”. (Buio. Quando torna la luce, Mazzini è in piedi, in proscenio. Si tocca le reni, dolorante). Da alcuni giorni  non posso quasi muovermi, e impiego mezz’ora per andare da dove sono alla birreria. I miei amici la chiamano gentilmente lombaggine. Io so che si tratta di un principio di paralisi spinale, da cui sono stato minacciato già da tempo. (Siede a fatica nella poltrona. Apre un libro, ma non ha voglia di leggerlo; lo chiude, pur tenendo un dito sulla pagina cui è arrivato). Carissima Emilie, devo essere sincero con voi: non dimenticate le mie ubbie. Io voglio molto bene a Venturi; ma anche se gliene volessi dieci volte di più, non potrei far vita comune con lui, né con altri. All’infuori di quanto concerne i doveri da compiere verso l’Italia, devo vivere solo. C’est plus fort que moi. Non sono un uomo felice. Ho spesso contrazioni dell’animo, e lunghi periodi di abbattimento e di stanchezza morale, durante i quali soltanto il passo di un amico alla mia porta mi dà un sussulto; e il sorriso che per mia educazione sono obbligato a rivolgergli è per me una tortura. Devo restar solo a consumare il mio fumo. E poi, carissima Emilie, quel che io posso sentire  per Venturi, lo sento per riflesso vostro, e pensando a voi. Non mi è possibile amare persone nuove. Fuor che per quelli che già amavo, la mia anima è perfettamente morta. Posso provare per altri stima, simpatia, devozione; ma non ne risento alcuna gioia. Non chiedetemi, dunque, cose impossibili. (Si rimette a leggere il libro, ma si  addormenta in poltrona. Lunga pausa. La luce si attenua. Colonna sonora di truppe che si imbarcano, rumori di onde, voci eccitate di soldati. Mazzini si risveglia di colpo, si alza di scatto, eccitato). Garibaldi è partito! Sono in pieno accordo con lui!  (Si blocca,  non può reprimere un grido di dolore per i movimenti bruschi che ha fatto, rizzandosi in modo  troppo rapido,  e si tiene le reni: aveva dimenticato la sua lombaggine. Di qui, fino alla fine, si muoverà lentissimamente, come un mezzo paralitico. La lentezza dei movimenti farà contrasto un po’ comico con la incalzante velocità del dialogo, molto sovraeccitato) . La sua andata in Sicilia impone una mossa analoga per invadere gli Stati Pontifici, sollevare le Marche, l’Umbria, e spuntare sugli Abruzzi, evitando Roma e – per ora – un urto diretto con le forze francesi. È questione di tre marce e mezza. La cosa, la grande cosa da fare è questa: sommuovere la divisione Rosselli, che è ancora in Romagna, composta in gran parte di nostri, aggiungere un 200 o 300 esuli Veneti ed altri sparsi e legati a noi, e passare la Cattolica. Con Garibaldi in Sicilia, l’effetto del passare e far insorgere Umbria e Marche sarebbe un evento potente di conseguenze. Così si salva la Sicilia e si fonda Italia d’un getto solo. (Pausa, amaro). Poi la darete al Re, e io me ne andrò a morire fuori dal paese. Emilie, Caroline, devo partire. Se poi potrò giungere all’azione, à la garde de Dieu. Sono vecchio e debole (solleva a fatica la valigia e la posa sul tavolo), e può darsi che vi trovi la morte. Se l’azione non sarà possibile, naturalmente, tornerò. My individual country is England.

(Buio)

 


L'imbarco notturno dei Mille a Quarto
il 5 maggio 1860
 
 

VI Quadro

MAGGIO-GIUGNO 1860. A GENOVA AGOSTINO BERTANI RACCOGLIE FONDI, MATERIALI I E UOMINI PER GARIBALDI CHE COMBATTE IN SICILIA. ACCANTO A LUI, MAZZINI CERCA INVANO DI RIMETTERE IN PIEDI IL SUO PROGETTO DI INVADERE PER VIA DI TERRA, DALLA ROMAGNA, LO STATO PONTIFICIO, PER PIOMBARE QUINDI SUL REGNO DI NAPOLI.

 

(Pieno giorno. Mazzini è in piedi, si muove nella stanza, eccitato).

Garibaldi ha lasciato le linee generali del suo piano: assalire il Regno di Napoli in tutte le direzioni. Ha nominato  suo rappresentante a raccogliere fondi il dottor Bertani. Sono perfettamente inteso con Garibaldi, che ha accettato  ciò che gli chiedevo di fare: di osare, di agire Unità senza il consenso del Governo. Chi dunque vuole seguire le istruzioni di Garibaldi, e ha fede nella sua azione, mandi al dottor Agostino Bertani, in Genova. Noi non gridiamo Viva Vittorio Emanuele!; ma chiniamo la testa a questo grido, quando esce dal popolo che combatte. Noi gridiamo Unità e Libertà! (Pausa, si muove). Garibaldi è sbarcato! Bixio è andato con Garibaldi. Una seconda spedizione per la Sicilia avrà presto luogo, al comando di Medici. Una terza si prepara, fatta da noi. (Pausa. Amaro, lentamente, dolorosamente). Io, repubblicano da trent’anni, non posso urlare in piazza Viva Vittorio Emanuele! Ma dico, ridico e ridirò sempre, che accettiamo il grido quando sorga da altri, dal popolo. (Va al tavolo, scrive e legge lentamente, a mano a mano che scrive). “My dear Caroline, quello che dite è vero; mai stato così ligio al dovere come ora: il mio suicidio morale è completo. D’altra parte, importa non la mia posizione, ma la nascita di un Popolo, di una Nazione. Io do realmente un aiuto, e questo è quel che conta”. (Si alza, riprende a muoversi nella stanza). Bertani è diventato il centro di raccolta dei fondi, e noi lo aiutiamo in ogni modo possibile. Se si considera il monopolio esercitato dalla Società Nazionale di La Farina, abbiamo fatto miracoli. Metà del denaro raccolto va nelle mani sue. Ma Bertani è debole; Bertani è una conquista recente; Bertani è assediato ogni giorno, ogni ora, da deputazioni di Conti, Marchesi, Principi e personaggi ufficiali che cercano di ricondurlo a La Farina e al Governo, spaventandolo, adulandolo, dicendogli che egli è uno strumento nelle mie mani, nelle mani dei demagoghi. (Pausa). In generale Bertani mi rinnega, come Pietro, benché di tanto in tanto abbia qualche piccolo impeto di bontà, e  allora mi scrive: “Per l’amor di Dio, non fate sapere che siete con me, altrimenti io rompo”. Talvolta sospetta che io machiavelizzi con lui, che io tenda a rubargli i fucili.  Io mi sottopongo pazientemente a tutto questo; lo vedo di nascosto, di notte; lo vedo in una cameretta, mentre in un’altra sono radunati dei moderati. Certo, in me è morto l’individuo; non sopravvive che il fine, e io son deciso a bere il calice sino alla feccia. D’altra parte, io sono forte, molto forte quanto a elementi: migliaia di volontari sono pronti a marciare, purché possano avere le armi. Mi giungono offerte da ogni parte. Tutti gli esuli veneziani, tutti i congédiés, tutti i giovani che rifiutarono di andare in Piemonte per arruolarsi nella guerra di Luigi Bonaparte, vengono ad offrirsi, e mi tormentano con la loro impazienza, e minacciano attacchi parziali, cosa che sarebbe solo una rovina. L’entusiasmo per l’azione  è generale. E intanto io sono impotente. Se avessi danaro, potrei agire con maggior indipendenza di fronte a Bertani: trattare in termini di uguaglianza. (Pausa). Bertani è l’unico che abbia vita, e un po’ di intelletto rivoluzionario.  Credo sia buono, e si va perfino affezionando a me. Anche lui, come me, cede inevitabilmente dinanzi alla marea. È molto probabile che cesserebbe di ricevere denaro se dichiarasse apertamente di riconoscere i miei princípi. Il terrore che incute il mio nome è tale che egli è letteralmente assediato da visitatori e corrispondenti allarmati per i suoi segreti rapporti con me. Ieri l’ho lasciato alle tre dopo mezzanotte e sono andato a letto alle quattro. Le mie serate mi sono state tutte portate via. C’è molto lavoro, e spesso vado a letto alle tre e mezza. (Pausa). Ho offerto a Cosenz di comandare la spedizione per via di terra, verso le Marche e l’Umbria. Una volta entrato in azione Cosenz è eccellente,  ma prima è una vera seccatura . Titubante per natura, sospettoso, bislacco, suscettibile; ha sempre timore di essere ingannato. Ho l’istintiva sensazione che non mi ami. Perciò devo lavorare più che mai di nascosto. D’altra parte i tre quarti dei giovani Lombardi, Veneti, Genovesi e altri, arruolandosi e ricevendo le mie istruzioni, sono cordialmente miei, e  sono persuasi che alla fine entreranno in azione sotto la mia guida. Io, invece,  non potrò andare con loro se non celatamente, evitando ogni segno e dimostrazione. (Taglia un po’ di pane, apre la finestra e depone sul davanzale della mollica di pane. Poi chiama delle galline di cui si sente fuori scena il chiocciare).  Alla compagnia dei passeri, ho aggiunto due galline. Ho sempre avuto una passione per le galline. Talvolta, dopo che io ho pranzato, faccio mangiare loro pane, e anche vino, per rinforzare il loro organismo contro le scosse e le avversità. (Chiude la finestra, va al tavolo, sfoglia dei giornali. Silenzio. Buio. Quando ritorna la luce Mazzini è in piedi, in proscenio). Cosenz ha rifiutato il comando, perché il Governo si è opposto, per non dispiacere a Luigi Napoleone.  (Pausa. Ironico, amaro). Cosenz guiderà la terza spedizione in Sicilia! Partirà lunedì venturo. Ci leva uomini! Come Partito, diventeremo ridicoli! Condottieri militari come Medici, Cosenz, ecc. preferiscono attenersi a ciò che è approvato dal Governo. E Bertani, debole come tutti gli uomini, non osa contrariarli, e cede. Un giorno ha denaro e materiale per il nostro piano, il giorno dopo non ha più nulla. E non finisce qui.  Gli elementi che io ho organizzato (Dio sa con quanta fatica) sono spazzati via da ogni spedizione che si fa per la Sicilia. È proprio la tela di Penelope. Per di più sono assalito, tormentato, seccato a morte dai nostri uomini che vengono a lamentarsi che i miei sono sogni e non realtà. Se dico la verità a Bertani, lui reagisce e litighiamo. Ma intanto tutti i mezzi sono nelle sue mani. Solo, io non posso fare nulla. Io non ho niente nelle mie mani, eccetto il denaro raccolto con la sottoscrizione di Glasgow; mi occorrerebbero almeno quattromila sterline di più, per poter agire indipendentemente da tutti. Così non mi rimane altro che sottomettermi. Sono impotente a sfogare la mia rabbia anche in maledizioni. (Va al tavolo, scrive e legge lentamente, a mano a mano che scrive). “My dear Caroline, non crediate che io senta troppo – come Re Lear –  l’ingratitudine degli uomini. Ciò che alle volte mi addolora è pensare che se avessi i mezzi a mia disposizione avrei già fatto le cose. Bramo l’azione, per amor dell’Italia, ma al di là dell’azione – posto che io le sopravviva –  vedo con desiderio Londra, e un angoletto, vicino a Caroline, in cui poter scribacchiare un libro e spegnermi tranquillamente. Non avrò mai più gioia dall’Italia. Vivo di qualche affetto che mi danno, in Inghilterra, dei gentili, raffinati, delicati angeli inglesi, e del senso del dovere. (Pausa). Emilie è arrivata a Genova. L’ho vista, rapidamente, domenica sera, in mezzo  a tanta gente”. (Buio. Al ritorno della luce Mazzini è ancora al tavolo. Strappa un foglio, per iniziare una nuova lettera. È sera, nella stanza penetra un raggio di luna). “Cara Emilie, se non siete fuggita troppo  disgustata, domenica sera, sarebbe meglio che veniste da me. S’intende, manderò qualcuno a prendervi”. (Si alza, gira per la stanza in silenzio, va alla finestra, apre l’anta  e guarda un attimo fuori; poi  va alla specchiera, si guarda, prende il pettine e vorrebbe pettinarsi, ma capisce che è molto calvo e posa il pettine un po’ scoraggiato. Prende allora la spazzola e si spazzola i pochi capelli che ha sulla nuca). La luna splende – bella – sul mare che io vedo da lontano, e Giove sembra una luna appena nata. Cielo e terra sono seducenti – e io desidererei trovarmi vicino a voi…. (Si guarda, si rassetta il panciotto, tira fuori l’orologio dal taschino del panciotto e controlla l’ora. Da un cassetto estrae un foulard e se lo mette al collo, guardandosi di nuovo allo specchio). Sarebbe meglio veniste, almeno una volta ancora, da me, Emilie… (Pausa. Si allontana, poi torna ancora a  guardarsi allo specchio). Desideravo vedervi sola, la prima volta…


Garibaldi entra a Napoli, il 7 settembre 1860
(dipinto di Antonio Licata)
 

VII Quadro

LUGLIO-AGOSTO 1860. MAZZINI È SEMPRE A GENOVA, MA VEDE SVANIRE IL SUO PROGETTO DI INVADERE PER VIA DI TERRA, DALLA ROMAGNA, LO STATO PONTIFICIO, PER PIOMBARE QUINDI SUL REGNO DI NAPOLI.

(Pieno giorno. Sul tavolo una ventina  di fucili. Per terra, accanto al tavolo, due casse, vuote. Mazzini è in piedi, intorno al tavolo, prende in mano i fucili, li controlla, ne punta uno contro la platea, come volesse sparare. Si sente lo scatto del grilletto. Ha l’aria felice, è molto eccitato).

Le cartucce mandate da Bertani non vanno bene per questi fucili. Così ho dovuto comprare altre cartucce. Cerco di far fronte a tutto. (Pausa). Il giorno in cui cominciamo a sparare, bevo una intera bottiglia di champagne, caro Bertani. (Pausa. Ripensando, sorride, ironico). Caro Bertani, tu sei un medico, Garibaldi ti ha nominato maggiore medico dei Cacciatori delle Alpi, ma tu rappresenti la parte dell’energia, di fronte ai Medici e compagnia bella, che all’inizio biasimavano la spedizione di Garibaldi in Sicilia perché mancavano i cannoni rigati. Sii fedele alla tua parte, caro Bertani. Vattene a letto presto,  non come ieri, che hai fatto di nuovo le tre di notte. (Pausa). Ho scritto a Aurelio Saffi, a Oxford, perché venga in Italia, nelle sue terre, in Romagna. Senza fare storie, con o senza passaporto, anche clandestinamente. (Pausa. Di qui in avanti sistema via via i fucili dentro le  casse, verificando però fucile per fucile, che tutto sia in ordine). Attaccare con decisione: non v’è che una sola cosa, un solo punto da evitare – in oggi – ed è Roma città. Non bisogna assalire o provocare direttamente i francesi. (Pausa). Questi due mesi meriterebbero ch’io riuscissi. Ho fatto tanto la parte del subalterno, ho ingoiato tanti bocconi amari come fossero ciambelle, ho rinnegato me stesso con tanta pazienza – per un fine da raggiungersi –, che credo di dover avere per ricompensa il risultato. E, nondimeno, ne sono incerto assai. (Pausa). Garibaldi legge le mie lettere tre volte, e non mi risponde mai; accoglie bene le persone che io gli mando, ma si mantiene indipendente, e propende a monopolizzare per sé iniziative e ogni altra cosa. Mi ha sottratto uomini. Aveva bisogno di soldati; e così assorbe tutti gli elementi sui quali noi contavamo per le nostre operazioni. Con la parola d’ordine Sicilia e Garibaldi attirano laggiù molto facilmente tutta la nostra gente. Lo stesso Governo aiuta: Cavour – purché si salvino le apparenze – lascia che armi e munizioni vadano al Generale, ma non ai mazziniani. E fra questi, secondo lui, il più pericoloso è Bertani, che però – a ogni successiva  spedizione siciliana – dà il denaro e il materiale che era stato depositato per il nostro disegno. E io, come il ragno, torno ogni volta a tessere daccapo la tela. (Lunga pausa). Ma poi, forse, inconsciamente, Garibaldi  disapprova qualsiasi tentativo che non derivi da lui. (Come in una parentesi improvvisa, interrogativo). E se andasse avanti? Credo che lo farà. Sbarcherà nel continente, non so dove. (Ritornando al suo tormentone consueto). V’è nel suo cuore, malgrado le dichiarazioni di amicizia che negli ultimi tempi mi ha rinnovato, un sentimento di gelosia  nei miei confronti che  mi riesce addirittura incomprensibile. Un giorno, nell’ascoltare il nostro piano d’azione, che un mio amico – mandato appositamente  di qua a Palermo – gli andava spiegando, uscì a dire con un senso di mestizia: “Ah sì, è quello di cui mi  parlarono dodici  anni fa – noi faremo meglio di voi”. Io proprio non ricordo, di aver usato tali parole, dodici anni fa…. Non è nella mia natura esprimermi in quel modo. Ma dodici anni fa – era il ’48 –, dopo che egli lasciò la Lombardia, dichiarandomi che partiva per Genova, ci fu un colloquio, sì, in cui molto probabilmente io dissi: “Benissimo, cercheremo di fare qualcosa senza di voi”. Tutto qui, solo questo. (Pausa. Prende una bottiglia di vermouth e una  di china, versando dall’una e dall’altra in un bicchiere, che beve rapidamente). Mi sono sentito  molto debole, ma ora  sto  meglio, grazie al vermouth con la china.  La china io la prendo sempre con il vermouth. Combatto così la mia debolezza. (Riempie un altro bicchiere che si scola in un colpo).  Noi eravamo pronti a  entrare, su grande scala, per via di terra. Ma tre volte già, Garibaldi ha fatto sparire materiale e Comandante. (Ha finito di sistemare tutti i fucili dentro le due casse, che chiude con cura. Trascina a fatica le due casse dentro un armadio a muro, e chiude la porta dell’armadio. Esausto, per la fatica, va riempirsi e a svuotarsi  ancora un bicchiere del suo cocktail). Io sono stanco fisicamente e moralmente in modo da non dirsi. Quel po’ di vita che altri trova forse in me, è tutta fittizia, e mi costa. Sono un cadavere galvanizzato. (Ancora un bicchiere, che è il quarto). Se non cedo, vuol dire che rimane ancora dentro di me qualcosa di una struttura di ferro. (Pausa). I battaglioni organizzati da noi, chiamati da Cosenz, poi da Sacchi, chiamati a loro volta da Garibaldi, ci guizzano dalle mani per la Sicilia. (Parla in modo sopra le righe, già chiaramente  un po’ ebbro per quei quattro bicchieri a stomaco vuoto). Invadere lo Stato Pontificio… Marciare da Montalto a Perugia, traversando tra il lago di Bolsena e la frontiera toscana, poi tra la Chiana e il lago di Perugia. (Come un disco rotto, riprende taluni  passaggi del suo vecchio piano strategico, già esposti altre volte, del tutto  incongruenti rispetto al nuovo piano). Tre marce e mezza, passare la Cattolica. .. Si salva la Sicilia e si fonda l’Italia d’un getto. In politica insurrezionale, il momento è tutto. (Sempre più confuso). Senza tua colpa, dacché il materiale ti manca, ma come fatto, credo che il  momento migliore  comincia a passare. (Barcolla, si regge al tavolo). Temono la mia influenza e quella di Garibaldi. Sono in antagonismo con Garibaldi quasi quanto con me. Solo che lui è alla testa di 30/40.000 uomini, ed è ora l’iddio di tutto un popolo. Io, invece, ho solo 2000 uomini, neppure un franco a mia disposizione, e metà della borghesia contro di me. (Gira intorno al tavolo tenendosi al bordo con le mani). Sono tutti miei uomini… i 2000 della Brigata Nicotera, accampati a Livorno. Ma sono immense le difficoltà che ci oppone il Governo, decisamente avverso a ogni nostro tentativo. (Riscaldandosi e ripetendosi). Il Governo ha dichiarato guerra aperta alla mia impresa. Adopereranno anche la forza, per impedire loro di agire. (Pausa). Triste, molto triste. Di me non posso dirvi nulla in questo momento, se non che verrà il mio turno.  Il Governo mi darà la caccia, ma questo non importa… Credo che non rimarrò molto tempo dove sono… (Scivola a sedere per terra, davanti al tavolo. Disperato, tragico). Per non so quale fatalità, l’azione si ritira dinanzi a me… come le acque dinanzi a Tantalo…

 

(Buio)

 


 

        
Partenza di Giuseppe Garibaldi da Quarto

         
 

VIII Quadro

SETTEMBRE-OTTOBRE 1860. DALLA SICILIA GARIBALDI È SBARCATO IN CONTINENTE ED È GIUNTO A NAPOLI. MAZZINI ARRIVA A NAPOLI MA PRENDE ATTO CON DOLORE CHE GARIBALDI SI MUOVE IN MODO AUTONOMO DA LUI. IN NAPOLI LIBERATA ANCHE MAZZINI È LIBERATO DALLA PRIGIONE DELLA RIVOLUZIONE. NON È PIÙ CHIUSO IN UNA STANZA MA STA IN HOTEL, E FINALMENTE SI RILASSA.

(Poco prima del ritorno della  luce  un’immagine enorme del Vesuvio. Scompare la proiezione; ancora buio, riempito da colonna sonora di musiche napoletane dell’Ottocento, che decrescono lentamente, mentre cresce progressivamente il vociare del popolo napoletano, con forte accento dialettale. Arrivato al culmine, quasi insopportabile, di rumore, silenzio improvviso. Luce di pieno giorno).

(Mazzini esce da una quinta laterale, in proscenio, dove si muoverà, per tutto il quadro. Ha uno spolverino elegante, bianco, e una canna in mano. Ha l’aria distesa di un turista un po’ anziano ma soddisfatto di sé). Sono a Napoli. Garibaldi, appena saputo del mio sbarco, mi ha mandato a dire che posso stare qui quanto e come più mi piace; e che mi devo considerare libero e sicuro come a Londra.  Ma i cavouriani strillano alle stelle contro di me… e contro di lui. (Pausa). Napoli è una città piena di gente: anzi, piena zeppa. Ho dovuto fare il giro di sei alberghi, prima di poter trovare una stanza. Via Toledo – una via lunga lunga, e la più elegante – era affollata quando vi passai. Ogni finestra ha la sua bandiera, e si vedono dappertutto le camicie rosse dei Garibaldini. I calabresi –  con il loro cappelli a punta e i loro singolari fucili, ora cortissimi, ora lunghissimi– sono molto pittoreschi. Abiti fantasia di velluto, monaci con il crocifisso sul petto e, accanto, pistole, guardie nazionali, bandiere, coccarde danno alla città un aspetto dei più coloriti. È la vita che scaturisce di nuovo. (Pausa). Garibaldi non è qui, ma in qualche modo, in qualche luogo, lo vedrò. (Autoironico). Appunto per questo sono venuto. Pare che adesso sia a Capua, per intercettare le comunicazioni fra le province romane e il Re Borbone che è ancora chiuso a Gaeta: in modo da impedire che le truppe francesi di Lamorcière si uniscano a quelle borboniche.  Ho chiesto un colloquio a Garibaldi, e immagino che l’otterrò. (Pausa). Qui la natura è straordinariamente bella. Il mare è d’un azzurro cupo, veramente singolare; il cielo anche; l’aria è primaverile, benché sia settembre. Il golfo è incantevole: le isole tutt’intorno gli danno l’apparenza di un lago. Da ogni cosa spira la vita, una o-nni-po-ten-te vita. Ah, come desidererei fare di nuovo questo viaggio con Caroline, e poi morire! (Mette mano sotto lo spolverino, e da una tasca della giacca trae un giornale che comincia a sfogliare). Stamattina tutti i giornali napoletani danno notizia del mio arrivo. Ecco cosa scrive il Nazionale: “La liberazione del Regno è stata fatta dal nome di Vittorio Emanuele e dal genio di Garibaldi: non ci vogliono mestatori!”. I moderati sono furenti per la mia presenza qui. Corrono voci che sono qui per agitare, per diventare Ministro, che mi preparo a  proclamare la Repubblica Rossa! (Pausa). Questa notte hanno fatto dimostrazioni contro di me; gruppi di uomini – con bandiere e torce – si sono divertiti a gridare A morte!, sotto le finestre del mio albergo. Erano la feccia della città. Ma se Garibaldi fosse disposto a dare loro la stessa somma di denaro che ricevono, invece di A morte!  griderebbero Evviva!  (Ripiega  il giornale, che tiene però in una mano, arrotolato. Continua a passeggiare, con aria leggera e serena, in una mano la canna, nell’altra il giornale). Napoli è la più rumorosa città in cui sia mai stato, ribollente di clamori, ma senza dubbio uno dei più bei paesi possibili per quanto riguarda cielo, aria, mare, frutta. I limoni sono giganteschi; le pesche bislunghe invece che rotonde. (Pausa). La mia spalla e il braccio vanno meglio, my dear Caroline. Ho visto Emilie, a Livorno, en passant. Aveva un aspetto più robusto. Venturi è venuto con me, qui; ed essendo gli hotels tutti pieni, sono da due giorni nella stanza insieme con lui: cosa che mi rende infelice, benché io taccia e sorrida. È per amor di Emilie che sopporto questa compagnia intima. Però non vedo perché i miei amici non possano essere innamorati senza che io sia costretto a vivere nella stessa stanza con gli innamorati! (Pausa. Poi progressivamente sempre più stizzito). Non posso scrivervi a lungo. In albergo la penna è cattiva; l’inchiostro esecrabile, la carta ugualmente; e c’è Venturi. Mi sento a disagio sotto tutti gli aspetti! (Esce di quinta. Buio. Quando rientra, ha in testa un bellissimo cappello, molto elegante, la “paglietta” napoletana. Si è messo anche un foulard rosso sgargiante, che fuoriesce dal collo dello spolverino). Ho visto l’eroe. È stato molto cordiale. Ma non ho potuto starci insieme che dieci minuti. È sempre circondato da gente. L’unico risultato pratico è stata l’assicurazione che andrà molto presto a Roma. E se egli va, io lo seguirò… en amateur. Con tutta probabilità vi troveremo i Piemontesi; si affretteranno, se sanno che Garibaldi è in marcia. (Pausa). Il Governo si accinge a fare esattamente quello che abbiamo predicato per tanto tempo e che ha impedito a noi di fare: l’invasione dello Stato Pontificio. (Con amarezza). Ogni mio progetto è mandato a monte, se ne preparo io l’esecuzione; e poi, invece, è adottato da loro. Questa è una guerra personale. (Si riconforta e si rianima). Dalla mattina alla sera la mia stanza è piena di gente: alcuni – specialmente di Napoli – vengono per semplice curiosità; altri – per la maggior parte dalle province – per sincera affezione e devozione. Altri ancora – i cosiddetti scrittori –  per offrirmi i loro opuscoli o per discutere; e qualcuno, molto probabilmente, per spiare. E poi della povera gente che, credendomi una potenza, viene a presentarmi suppliche. Alle volte sto per piangere, tanto sono sfinito e scoraggiato. (Pausa). Ma qualche giorno fa, ho pianto davvero, leggendo non so che libro. Era un semplice pretesto – quel libro – di cui avevo bisogno, per poter piangere. (Pausa, di nuovo con aria leggera, da turista, passeggiando e muovendo con gusto la canna). Sono andato l’altro giorno a Mergellina, a mezz’ora dalla città; un luogo da dove si vedono il golfo, il Vesuvio, e tutto il resto. Il tramonto era incantevole; e ancora più incantevole fu quando si alzò la luna piena. V’è una tal dolcezza nei contorni, nel mare simile a un lago, nell’azzurro del cielo, nella distesa semicircolare della città, nei lumi delle barche, nel mormorio delle onde, e perfino nelle rovine romane tutt’intorno, che non ho visto in nessun altro luogo, e che non si può comprendere se non si prova. La luce rosso-cupa del Vesuvio è l’unica cosa che vi fa contrasto, e che s’insinua con una nota di fatalità in questa ammirabile armonia. Desideravo sprofondarmi in quel paesaggio rischiarato dalla silente luce lunare, ma anche qui, come nei musei, la  persecuzione dei Ciceroni, delle guide che vi torturano e vi fanno uscire dai gangheri è tale, che uno non può trovarsi mai solo in questi luoghi incantevoli. Uno dopo l’altro, cantanti, suonatori, tarantelle vi impediscono di riposare o meditare: non potete muovere un passo senza che qualche ragazzo vi offra delle stampe, o, se è tardi, vi proponga di rischiararvi la via con le lanterne. (Pausa prolungata. Si accosta alla quinta laterale, si guarda intorno, come cercasse qualcosa che non trova, un cestino. Poi – con aria circospetta, come vergognandosi – si libera del giornale che butta per terra, accanto alla quinta). La mendicità ha preso qui proporzioni  considerevoli. (Pausa). E  la sporcizia, anche... (Estrae un sigaro, lo odora, poi se lo accende. Lo comincia a fumare con piacere). Uno di questi giorni… tenterò di andare a vedere Pompei… (Cammina ancora un pezzo, in silenzio,  fumando e muovendo sempre con molto  gusto la canna, mentre la luce si spegne lentissimamente).               

 

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