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Lamento (parziale) per Mosca

di Roberto Fedi
  Maurizio Mosca
Data di pubblicazione su web 04/04/2010  

Si sa come si dice in questi casi, sulla scorta (sembra) di Diogene Laerzio: De mortuis nihil nisi bonum, dei morti niente si può dire se non bene. Certo, la pietas qualche cosa conterà pure. Ma, a costo di sembrare iconoclasti in tempo di Pasqua, è un po’ difficile usare la massima a proposito di Maurizio Mosca, appena scomparso all’età di 70 anni.

 

Eppure. Eppure il personaggio, che da vent’anni era quasi totalmente se non esclusivamente un intrattenitore televisivo, qualche merito anche se forse involontario l’aveva pur avuto. Vediamo un po’.

 

Era stato caporedattore alla Rosea, vale a dire per gli appassionati “La Gazzetta dello Sport”, grande quotidiano sportivo ora ridotto a giornale da gossip calcistico o poco più. Pazienza. Un bel giorno esce un suo ‘scub’, come diceva all’epoca il suo sodale Biscardi, altro fenomeno della ‘trashizzazione’ della comunicazione sportiva. Un’intervista esclusivissima con Zico, grande calciatore brasiliano all’epoca in forza all’Udinese, noto per la sua avversione assoluta alle interviste. Si era, se non andiamo errati, nel 1983. Un sera, appunto da Biscardi al famigerato Processo del lunedì, parla appunto Zico e Mosca è lì. E il calciatore rivela che lui quell’intervista non l’ha mai rilasciata, e anzi quel giornalista non l’ha mai conosciuto. In altre parole: l’ineffabile Mosca se l’era inventata.

 

Si dirà: capirai. Mica era un’intervista al Segretario dell’Onu. Ma insomma la deontologia un peso anche nel giornalismo sportivo ce la dovrebbe avere. Ergo, fine della collaborazione del Mosca alla “Gazzetta”, che lo butta fuori seduta stante. Ma non fine del Mosca giornalista-intrattenitore. Cogliendo al volo un’esigenza forse già presente nel mondo un po’ becero del tele giornalismo sportivo, fino ad allora incarnata da Biscardi, il Mosca si trasforma. Si mette a fare, né più né meno, il buffone: nessun’offesa in questo epiteto, che è a suo modo storicamente nobile, come Dario Fo ha espresso fino alla noia.

 

Su Mediaset, o come si chiamava allora, iniziano le sue comparsate nelle vesti più grottesche: in un pentolone come quello in cui i cannibali delle barzellette cuocevano gli esploratori africani, con un pendolino con cui prediceva il futuro delle partite, con foglietti spiegazzati in cui solo lui poteva capire qualcosa e da cui estraeva “bombe”, cioè notizie strepitose quanto improbabili su spostamenti di mercato dei giocatori. Erano siparietti comici o anche grotteschi, in cui la professione del giornalista si mortificava (per i puristi), ma anche si esaltava la presenza dell’opinionista sopra le righe, sparaballe, esagerato, appunto trash che è diventato, ormai, un elemento ahimè insostituibile in programmi che vorrebbero essere seri.

 

Lui, almeno, giocava. Era figlio di un giornalista celeberrimo, Giovanni Mosca, e fratello di un altro giornalista e scrittore noto, Paolo. Chissà che gli era scattato nella testa. Quello che è certo è che, volente o nolente, per caso o per convinzione, si era buttato a corpo morto e senza infingimenti né intellettualismi nella bolgia, con un linguaggio del corpo (i travestimenti da avanspettacolo, ad esempio) quasi notevole. Come direbbe Mourinho, nella generale prostituzione intellettuale dei giornalisti televisivi lui non fingeva né si prostituiva.

 

Alla fine, qualcosa di buono ce l’aveva, anche da vivo. Non si dice che ci mancherà, ma che certo lascerà il posto a colleghi più agghindati ma non per questo meno cialtroni, e senza la sua ironia, beh: questo sì.

 

E ogni tanto ci ha fatto sorridere, proprio per questo suo sbracare nell’eccesso senza sporcarsi e quasi con leggerezza. Non è poco.   

 




 
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