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Alice non fa meraviglie

di Luigi Nepi
  Alice in Wonderland
Data di pubblicazione su web 15/03/2010  

I tempi (e gli spazi) nel cinema stanno effettivamente cambiando, infatti la terza dimensione inizia a non essere più considerata solo un trucco attrattivo per cercare di riportare gli spettatori al cinema e quella cappa di diffidenza che ha fino ad oggi avvolto questo nuovo formato si va pian piano dissolvendo: le case di produzione, i registi e soprattutto gli esercenti (vera cartina di tornasole di ogni novità) iniziano davvero a scommettere sul 3D. Questo inverno, poi, ci ha anche offerto tre grosse portate di quello che potremo definire un inedito "pranzo d’autore tridimensionale", iniziato benissimo a novembre con il Dickens di Robert Zemeckis, proseguito alla grande con Avatar di James Cameron e terminato, in tono inaspettatamente minore, proprio con Alice in Wonderland di Tim Burton. Quest’ultimo è il terzo film in 3D prodotto dalla Walt Disney Pictures, che, dopo Up! e A Christmas Carol, dimostra non solo di voler assolutamente colmare il relativo ritardo con il quale ha iniziato a puntare su questo nuovo formato, ma anche di aver già maturato una strategia ben precisa a riguardo, come sempre tesa a minimizzare il rischio sul capitale investito, quindi o cartoni animati di sicura presa sul pubblico (è in arrivo il terzo episodio di Toy Story) o grandi storie affidate a grandi autori.

 
Al motion capture di Zemeckis, Burton unisce anche la fisicità degli attori (ancorché digitalmente modificata); l’idea sembrerebbe quella di ricostruire un "nuovo mondo" come ha fatto Cameron in Avatar, purtroppo, il tentativo del regista californiano non riesce, nemmeno lontanamente, ad avvicinarsi alle suggestioni create dal suo collega canadese. Dopo un ottimo quanto breve incipit, quasi horror, in cui Alice viene mostrata come una bambina insonne in preda agli incubi (anzi, per meglio dire, sempre allo stesso incubo), risulta subito evidente come il film si stacchi dall’intreccio del romanzo di Carroll per seguire un’improbabile trama tutta sua. In termini post-moderni l’operazione di Burton potrebbe quasi definirsi un reboot, cioè un azzeramento di tutte le versioni (cinematografiche ma anche, purtroppo, letterarie) che precedentemente sono state fatte della storia di Alice per riproporla come se si dovesse ricominciare tutto daccapo. Se Zemeckis in A Christmas Carol sposa fedelmente il testo di Dickens, permettendo così alla potenza del suo cinema (e del 3D) di essere il vero fulcro della sua rilettura, Burton sceglie un percorso diverso, decidendo sostanzialmente di riscriverne la storia, facendo di Alice una ragazza da marito che si muove in una realtà del tutto simmetrica alle sue fantasie, con tanto di Regina Bianca (la madre) e Regina Rossa (la madre del promesso sposo) e strani personaggi (la zia, le gemelle), dove tutto non è mai come sembra (il cognato) e spesso la realtà è persino più inverosimile dei suoi incubi (il promesso sposo). Burton fonde, o meglio "confonde" narrativamente i due racconti di Carroll (Alice nel paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò) arrivando a normalizzarne l’intreccio, dando così alla storia un senso non solo logico, ma addirittura preordinato dal fato, facendo diventare il lisergico viaggio di Alice, un fantasy novel piuttosto standardizzato, dove l’eroina è chiamata ad uccidere il mostro di turno.

Mentre Zemeckis e Cameron si rapportano in maniera estremamente consapevole e meticolosa con il 3D, il visionario Burton non sembra assolutamente a suo agio nell’ambiente tridimensionale e non trova di meglio che confinarlo tra trucchetti attrattivi da parco giochi (gli insetti che volano davanti al naso dello spettatore) e momenti in cui si è addirittura portati a togliersi gli occhiali per verificare se hanno o meno smesso di funzionare, accorgendosi così dell’assoluta bidimensionalità dell’immagine sullo schermo, cosa che origina inevitabilmente il sospetto che, a volte, la sensazione di profondità sia dovuta più all’effetto placebo di indossare gli occhiali 3D, che a una vera e propria tridimensionalità filmica.

 
Tutto ciò porta necessariamente a fare una breve riflessione su questo formato, che, proprio alla luce del risultato deludente di Alice in Wonderland, non può essere frettolosamente classificato come una semplice attrazione del post-moderno, anzi risulta sempre più evidente l’importanza dell’approccio "tridimensionale" all’opera da parte del suo autore, approccio pienamente avvertibile in Zemeckis e Cameron, ma completamente assente in Burton. Il 3D genera dinamiche spaziali decisamente diverse da quelle presenti nell’immagine tradizionale, chi non l’avesse già capito vedendo Avatar, potrà tranquillamente verificarlo quando, il prossimo giugno, uscirà anche sugli schermi italiani, un film produttivamente meno impegnativo come The Hole in 3D di Joe Dante, dove, grazie al numero limitato di personaggi sulla scena ed alla semplicità delle inquadrature, sarà possibile apprezzare come i movimenti degli attori siano coreograficamente funzionali a questa nuova profondità dell’immagine.

Burton, in maniera metaforicamente piuttosto elementare, attende il momento in cui Alice precipita nel paese delle meraviglie per "liberare" il 3D sullo schermo, una liberazione che, però, si rivela fine a sé stessa e non riesce ad apportare nessun altro fattivo contributo significante. Sembra quasi che il regista non abbia voluto (o saputo?) rischiare e, dovendo affrontare un testo già molto sperimentale (e sperimentato) come quello di Carroll, abbia scelto di affidarsi al suo mestiere, limitandosi a fare un compendio quasi antologico di tutto il suo cinema precedente, con scenografie che ibridano quelle spettrali di Nightmare Before Christmas con quelle cromaticamente esplosive di Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, personaggi che si rifanno soprattutto al secondo Batman e scene ripescate, piuttosto pedissequamente, dal suo repertorio, come quando il Cappellaio matto da finalmente sfogo alla sua "deliranza", con movenze inconsulte che ricordano molto da vicino quelle dello "spiritello porcello" di Beetle Juice.

Purtroppo anche la direzione degli attori lascia qualche perplessità: Mia Wasikowska, pur regalando alcuni veniali brividi di erotismo lolitesco, è congelata da Burton in un pallido colorito insano e in un’espressione sempre un po’ accigliata che ne fanno un’Alice troppo poco incline alla meraviglia e compresa nel suo ruolo di giovane donna che si trova finalmente a fare i conti con l’incubo della sua infanzia; mentre se Helena Bonham Carter, nelle fattezze digitalmente deformate della Regina Rossa, risulta (una volta di più) eccezionalmente brava nel rendersi insopportabile, l’eterea Anne Hataway restituisce una Regina Bianca deumanizzata nel suo cereo pallore e costretta in movenze assurde da ballerina zombie, che, a lungo andare, rendono insopportabile anche lei. Il protagonista assoluto è, comunque, ancora una volta Johnny Depp che Burton chiama, per l’ennesima volta, a recitare il ruolo di un vampiro: il Cappellaio Matto, è, in effetti, l’ultimo vamp di una lunga serie iniziata con Edward Manidiforbice e proseguita con Ed Wood, con l’investigatore Ichabod Crane di Sleepy Hollow, con Willy Wonka de La fabbrica di cioccolato (il più vampiro di tutti) e con il "diabolico barbiere di Fleet Street" Sweeney Todd (la cui reale sete di sangue è però animata da un’umanissima voglia di vendetta); serie che è destinata a trovare la sua definitiva consacrazione proprio nel prossimo film di Burton, Dark Shadows, dove finalmente i due usciranno allo scoperto e Depp sarà, senza ulteriori infingimenti, proprio un vampiro.

Insomma in questa versione di Alice in Wonderland poco sembra davvero funzionare: quanto più viene cercato l’effetto quanto più si ha la sensazione del già visto e del già sentito, con l’aggiunta di una terza dimensione che, ripeto, spesso gira totalmente a vuoto. In fondo Burton aveva già realizzato con Big Fish il suo personalissimo e coinvolgente viaggio nel "paese delle meraviglie", per cui non resta che sperare che si tratti solo di un passo falso e che, in futuro, il regista lasci perdere operazioni come questa dove assecondare le esigenze commerciali della produzione (soprattutto per quanto riguarda il merchandising) finisce per essere la parte più riuscita del film.

 

Alice in Wonderland
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