Krapp abita uno spazio minimo sotterraneo, quello del Teatro Due di Parma. La sua scrivania sta solitaria tra le colonne squadrate che sorreggono il soffitto basso, a breve distanza dalle poltrone degli spettatori. Di questa dimora color pietra non ci è dato vedere altro, neanche la stanza oltre la porta della parete sul fondo, unica costruzione scenografica compenetrata nellarchitettura spoglia della sala. Labitante appare, la luce fioca appesa sul tavolo illumina il candore di capelli informi e disordinati, il volto di un uomo vecchio: nella messinscena per la regia di Massimiliano Farau il volto è quello di Giancarlo Ilari, camicia chiara «aperta sul collo», catena dorologio nel panciotto come da beckettiana didascalia. Un brivido lo coglie, scuote il suo silenzio intorpidito. Cerca qualcosa, «si fruga», distrattamente, confusamente, con fastidio e lampi di impazienza, poi con un balzo è sul fianco della scrivania, fa scorrere fuori il cassetto, ne estrae un oggetto misterioso che custodisce gelosamente tra le mani giunte. Si appresta così a celebrare il rito del proprio pasto, esponendocelo, esibendo per noi qui la voluttà con cui spoglia la buccia della piccola banana, ne guarda incantato il cuore, ne pregusta il piacere prima del vorace morso. Stiamo lì e immaginiamo lodore del frutto penetrarci le narici, osservando la masticazione pastosa cui lattore ogni sera si sottopone, che Krapp si e ci offre.
Giancarlo Ilari
Mostrare in cosa consista «il fatto di essere qui» è quanto Robbe-Grillet vide già in Godot, come svelamento della funzione primaria della rappresentazione teatrale che la scrittura beckettiana realizza. Anche per questo è impossibile scrivere della messinscena de Lultimo nastro di Krapp senza parlare di questo esserci, senza dirne il compiersi fisico, che è il tempo e lo spazio dello spettacolo stesso. La presenza dellattore, il suo impercettibile eppure continuo slittamento tra realtà e finzione è messo da Beckett sotto interrogazione incessante; in questo senso Krapp stratifica una dinamica densa, perché la relazione attore-personaggio si compone di frammenti temporali e dislocamenti: la voce dellattore incisa sul nastro/la voce dellattore che adesso ci parla/la voce che adesso lattore registra per un riascolto che non si darà mai. Passato presente futuro, qui compresenti, dellio che si dice osservando e commentando i propri pezzi. Triplice dislocazione della persona, dellindividuo e della sua rappresentazione, che il corpo di colui che recita rende percepibile. E necessario infatti che questo corpo viva in scena, che si faccia sede e veicolo interno del movimento tra ciascuna dimensione.
Giancarlo Ilari fa accadere ogni spostamento su di sé. Tiene insieme lidentità anonima del vecchio e la traccia clownesca del clochard, mentre fermo con la banana in bocca come un bizzaro sigaro gode e esibisce la provocazione comica. Poi, il suo passo falso sulla buccia svela limpaccio della carne che ora è un vecchio sacco, deposito dintralcio ancora carico di voglie, ancora capace di sobbalzare per gli accessi collerici di questuomo pronto a fuggire fuori scena per un improvviso bisogno. Sentiamo lo stappo di una bottiglia, la parete oltre la porta violentemente illuminata imprigiona lombra umana, e intuiamo i suoi spostamenti nella freddezza di quella stanza bianca, dove forse stanno solo vino e accumuli di latta. Ritorna con una pila di scatole, la lettura delle indicazioni scritte su un quaderno ce ne fa conoscere la voce. Si compiace del suono nella dilatazione della parola «bobiiiina», di cui assaporiamo a nostra volta eco e consistenza. Finalmente trova quella carognetta finita in fondo a tutte le altre: il suo scorrere nel registratore, tra interruzioni, riavvolgimenti e pause, dirà con la voce di Krapp quello che luomo davanti ai nostri occhi ora a stento ricorda di se stesso.
Ascoltare un io che si dice e contemporaneamente vederlo reagire, ridere o soffrire, mentre si riascolta: nella durata di questa immagine Beckett condensa la frammentarietà del soggetto, la paradossale reversibilità di ciò che è esperito nella coscienza. La coincidenza biografica, per cui lautore scrisse il testo dopo aver ascoltato lattore Patrick Magee leggere in radio brani tratti dai suoi romanzi Molloy, Malone muore, Da unopera abbandonata, acquista un senso preciso: sulla scena lo stream of consciousness del monologo esplode, si frantuma, si estende, come notava Bernard Dort, grazie allo smembramento del personaggio in elementi autonomi (corpo/voce, bocca/figura). Il corpo visibile di Krapp-Ilari accanto a quello assente che parla attraverso la voce incisa è ciò che consente lintreccio tra l«io» e l«egli», tra drammatico e epico, in un moto perpetuo di straniamenti a tratti bruschi – uno sbuffo sonoro, una risata eccessiva, un pugno sbattuto sul tavolo – oppure impercettibili. Il trascorrere di un velo nello sguardo, lassottigliarsi degli occhi in fessure umide sotto le ciglia, lo schiudersi della bocca che vorrebbe forse alitare un respiro, mentre gli arriva lodore della vita perduta.
Non è solo il volto di Ilari, che mutando dischiude ogni volta un paesaggio; è ciò che attraversa la sua presenza a parlare. Parla quel busto, proteso verso il registratore come attirato da una calamita, ora sospeso sul gomito e quasi accasciato, ora sollevato per linspirazione. Dopo il penultimo ascolto, bastano le sue mani sotto la luce. Il silenzio è pieno della stretta incerta eppure decisa di quelle dita intorno alla nuova bobina, del gesto con cui la sistema, prima di far esplodere lo sdegno rabbioso contro «quel povero cretino» che fu, prima di ripercorre e fissare con altre parole frammenti della propria esistenza. Allimprovviso, scopriamo che lesserci di questo corpo arriva a toccare il nostro: quando Ilari si volta di spalle a fissare il buio, avvertiamo con Krapp il fruscio della Morte, le ombre del tempo, il vuoto dietro ogni spettacolo, certi fantasmi che mai si placano. E unalterazione interna si è prodotta, nella bocca dello stomaco o nella pancia, quando lo vediamo ascoltare la fine del nastro.
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