In occasione della ripresa al Teatro della Pergola dell'"Ingegner Gadda va alla guerra" di e con Fabrizio Giufuni, per la regia di Giuseppe Bertolucci, riproponiamo la recensione allo spettacolo del nostro collaboratore Marco Pistoia, pubblicata nel 2010 sulle pagine della nostra rivista.
Dopo Pasolini, Gadda. Dopo ‘Na specie de cadavere lunghissimo, il bellissimo monologo di sei anni fa, Fabrizio Gifuni, Giuseppe Bertolucci e Cesare Accetta sono felicemente tornati a lavorare a un progetto importante e oggi quanto mai necessario. Con rinnovata sapienza e agudeza, con rinnovato impegno etico ed estetico, Gifuni ha composto una sapientissima drammaturgia, che combina – senza aggiungervi una sola parola – i gaddiani Diari di guerra e di prigionia e Eros e Priapo con alcuni inserti da Amleto, brevi ma del tutto funzionali allinsieme. È come se Gaddus si raccontasse – e al contempo fosse raccontato – attraverso le sue parole, prima come fante nella Prima guerra mondiale (i Diari), poi quale scrittore che, partorito uno strepitoso pamphlet – grondante un gioco linguistico di articolata complessità – sul delirio di onnipotenza del corpo e della mente del “sovrano” (Eros e Priapo), lo dicesse, lo recitasse al pubblico.
Se nel Cadavere Gifuni era prima Pasolini poi il suo assassino, nel nuovo spettacolo è come se egli rappresentasse Gadda stesso sulla scena e nellintero arco dello spettacolo, su un immaginario “teatro di guerra” prima – a suo modo tracciato dallattore con un gessetto sul pavimento del palcoscenico – e su uno spazio qualunque poi, dai quali il Gran lombardo è, dapprima (i Diari), recitato con profonda, mesta malinconia, poi con ardore clownesco, nel mentre elabora una notevole filosofia sul potere (Eros).
Fabrizio Gifuni
Lo spazio scenico, in realtà, è sempre lo stesso, ridotto al perimetro del palcoscenico e alla sola presenza di una sedia, ma con una calibrata regia dei movimenti e dei giochi di luce. Un grado zero della mise-en-scène, così radicale e così “zen” da permettere alle parole di Gadda e alla magnifica performance di Gifuni di emergere appieno, cosicché lo spettatore sia totalmente concentrato sullessenza dello spettacolo. In tal modo le parole dei Diari, piene di una cupezza che esprime la desolazione, lo smacco e la solitudine di un uomo al fronte, rivelando un tragico appena stemperato da momenti di caustica ironia, quelle parole così disperate sono amplificate dal vuoto della scena. Nello stesso tempo il barocco gaddiano di Eros occupa da solo la scena, basta a se stesso, servito comè da un attore in stato di grazia, che ora, come Gadda vuole, ricorre a una sorta di toscano pseudo-antico, laddove nella parte dai Diari aveva da esser lombarda la cadenza linguistica della parola gaddiana.
Non cè, di fatto, una vera e propria suddivisione in parti, ma un trascolorare nel tempo dei “due Gadda”, senza effettiva soluzione di continuità. Tuttavia i due testi di riferimento sono come separati da un “a parte” (anche questa una possibile idea di regia) o un raccordo, un breve segmento dove Gifuni – con suprema nonchalance, quasi buttando via le parole (che del resto, lo sappiamo, possono essere «words, words, words…») – inserisce un brano da Amleto. Un momento del tutto funzionale, perché in tal modo inizia a emergere maggiormente il personaggio-uomo Gadda come diviso in due o due personaggi in uno, un Amleto Pirobutirro, combinazione del principe-filosofo con il protagonista della Cognizione del dolore, Gonzalo Pirobutirro, alter-ego dello scrittore.
Come in una dissolvenza incrociata Gaddus trascolora in Amleto Pirobutirro o, forse, lo era fin dallinizio, ma adesso questa identità si fa più chiara. Poco dopo, un raffinato e non esibito meccanismo di teatro nel teatro sinsinua nella performance, alimentato dal richiamo alla celebre battuta di Amleto sullattore («Non è mostruoso che un attore, soltanto per finzione…»). Perché Gifuni ha inserito questo brano? Perché esso serve a marcare la solitudine dellattore, anche quale evocazione della solitudine di Gadda, al quale Gifuni dà talora i gesti e i movimenti di una marionetta sconvolta dalla guerra e, poi, con Eros e Priapo, quelli clowneschi di un fanciullo pestifero, che mostra le chiappe allo spettatore, gioca, si diverte e fa divertire come prima di Gadda già voleva Palazzeschi. Al contempo quel brano agisce come messa a confronto di un attore con la propria funzione, ma ancor più come atto di amore verso lattore tout court, quale elemento basilare di una forma, il teatro, che, amleticamente, facendosi artefice di una finzione, smaschera le pieghe più inquietanti – e più vere – della realtà.
Un po Petrolini e ancor più Paolo Poli (ad esempio in taluni gesti e nel modo di porgere i toscanismi gaddiani), richiamando la sublime parodia del “birignao” secondo Carmelo Bene e la precisione vocale e di dizione di un Gassman, ma con grande e matura consapevolezza, Gifuni ci conduce e ci coinvolge – da ultimo seduto sul proscenio – nella mirabolante riflessione priapesca. Un fuoco dartificio, che ci riscatta da qualsivoglia dittatura del Capo carismatico e ci consegna un attore che oggi è pienamente diventato un “magnifico strumento”, per dirla con le parole di un altro Gran lombardo.
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