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Un indiano alla Casa Bianca

di Sara Mamone
  Il mio nome è Khan
Data di pubblicazione su web 13/02/2010  

Tra gli effetti collaterali dello sciagurato regno di George W. Bush, come peraltro di molti assolutismi incuranti della vita umana, va segnalata anche la prevedibile, ma ormai pare assumere i caratteri di una vera e propria alluvione, pioggia di opere bene intenzionate a svelare i guasti (totali, in ogni campo, sia esso morale, affettivo, economico) della recente follia. Guasti equamente compartiti tra “reduci” (partiamo sempre da un punto di vista imperial-americano and co.) disadattati, mutilati, impotenti, a vario titolo scoppiati (come in Hurt Locker) e le infinite varianti di coloro che non hanno certo partecipato agli attacchi ma sono diventati le vittime della rappresaglia.

Shahrukh Khan e Kajol

Che l’11 settembre e la conseguente disastrosa risposta a quell’orrore segnino una fase storica non meno devastante delle due guerre ufficializzate come mondiali non vi è dubbio e quindi è più che legittimo attingere da quell’enorme serbatoio drammatico (non continuiamo a leggere, scrivere, pensare, vedere e dipingere opere ispirate alle due grandi guerre?) che costituisce ormai la base della nostra coscienza quotidiana. Poiché le potenzialità drammaturgiche sono infinite, diviene decisiva una scelta ben orientata del tema, la selezione di piccoli nuclei dialettici ed emozionali coerenti, l’umiltà nella ricerca del particolare significativo piuttosto che l’accumulo di molti discorsi: questa diventa farragine e corre il rischio di lastricare ancora un po’ il cammino infernale delle buone intenzioni. Una, due o tre vanno benissimo ma forse è sempre bene attenersi alla prudenza compositiva di Aristotele che, pur non conoscendo il cinema e ancora meno la mondializzazione, conosceva perfettamente alcune invarianti dello spirito e dei sensi umani, più colpiti da una vicenda unica che dalla sua diffrazione in mille casi. E convinto che la complessità di una vicenda singola, se svolta in un arco di tempo troppo lungo, sia meglio espressa per via narrativa che per via rappresentativa.

E veniamo al responsabile di queste nostre riflessioni: il volenteroso, My name is Khan del bollywoodiano Karan Johar con il bolliwoodiano divo Shah Rukh Khan, film che parte da un bellissimo titolo che tutto lo rappresenta e che avrebbe dato luogo ad una bellissima opera se il regista non si fosse “allargato” e fosse rimasto fedele al suo personaggio: un indiano di grande cuore e un po’ autistico che prova sulla sua pelle prima i guai della propria diversità intellettuale (ha la sindrome di Asperger) e poi, integrato nel sacro suolo degli States, la bruciante tragedia dell’odio fomentato dall’inquilino della Casa Bianca.
 

Shahrukh Khan e Kajol

Non raccontiamo la trama, che è un susseguirsi anche abbastanza ben congegnato di eventi (tutti un po’ troppo didascalici) e che si popola di personaggi tutti abbastanza ben delineati ( tutti un po’ troppo didascalici), più o meno ben padroneggiati. Per condurci, attraverso immagini ora belle ora banali, alla sofferta fine quando, dopo la tragedia dell’uccisione del figlio della moglie indiana da parte di un gruppetto di amichetti bianchi bushizzati, il candido protagonista, diventato eroe in una catastrofe simil-Katrina riuscirà finalmente ad incontrare il presidente degli Stati Uniti e a pronunciare dinanzi a lui la frase semplicissima che lo identifica: «Il mio nome è Khan, e non sono un terrorista». Gli occhi adoranti della moglie ci confermano, ancora una volta, che Amor omnia vincit mentre We shall over came che ci ha fastidiosamente accompagnato per tutta la parte americana della vicenda, acquista un sapore di nuova speranza, poiché il presidente al quale finalmente Khan comunica la propria pacifica identità non è più il sulfureo Bush ma un nero sorridente e democratico (una leccatina in cauda non fa male).

Potremmo salvare completamente il film leggendolo alla luce sempre applicabile del melodramma al quale potremmo imputare tutte le ingenuità e lungaggini, tutte le ripetizioni inerti, tutte le enfasi e le semplificazioni?

 

Il mio nome è Khan
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La locandina
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