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Una gioia per gli occhi

di Luigi Nepi
  Avatar
Data di pubblicazione su web 09/02/2010  

Dopo anni di ripensamenti e rielaborazioni, sapienti anticipazioni dal gusto puramente promozionale, nonché un gioco al massacro di continui rinvii sulla data di uscita, finalmente James Cameron ce l’ha fatta ed il 18 dicembre 2009 il mondo ha potuto vedere l’oggetto filmicamente più misterioso dai tempi di Eyes Wide Shut. Il mondo, ma non l’Italia, che in quel periodo doveva riservare le sue sale ai vari Natali a... e Pieraccioni in..., triste termometro del suo provincialismo culturale, così, in una sorta di cinematografico Natale ortodosso, il 15 gennaio 2010 anche nelle nostre sale (finalmente orfane di De Sica, iperbolico simbolo della decadenza generazionale del nostro cinema) si è potuto ammirare Avatar in "prima visione".


Due premesse sono necessarie: innanzitutto il formato di Avatar è, indubbiamente, il 3D ed andrebbe visto nel più grande degli schermi possibili (è, probabilmente, il primo film d’autore progettato per essere visto nelle sale Imax), la seconda premessa è che Avatar è un grande film, se poi si tratti di un vero capolavoro o dell’annunciata rivoluzione per cui "niente sarà più come prima" è sicuramente troppo presto per dirlo, ma, di certo, una volta che si sarà abbassato il rumore mediatico che lo sta avvolgendo (che culminerà, inevitabilmente, con un exploit o un flop nella serata degli Oscar), potremo davvero capirne l’effettiva grandezza.

È la storia di Jake Sully (un convincente Sam Worthington), ex marine paralizzato e assoldato da una fantomatica compagnia, per sostituire il gemello morto Tom nelle ricerche che lui stava effettuando su Pandora, una specie di "nuovo mondo", abitato dal popolo dei Na’vi (giganteschi alieni antropo-felinomorfici, con quattro dita nelle mani come Topolino) e pieno di un minerale di vitale importanza per la vita sulla terra. L’atmosfera tossica del pianeta costringe gli uomini a creare degli avatar alieni per poter esplorare il pianeta, l’utilità di Jake risiede solo nel suo patrimonio genetico, affine a quello di Tom e necessario per "risvegliare" l’avatar alieno del fratello e collaborare con gli altri avatar in questa esplorazione. La voglia di conoscenza fine a sé stessa del gruppo di scienziati-avatar (tra i quali giganteggia la straordinaria Sigourney Weaver) viene presto in collisione con l’iceberg della necessità di immediati risultati economici dei membri della compagnia, supportata da un vero e proprio esercito mercenario. Sulle prime l’anima marine di Jake lo porta a complottare con il colonnello Quaritch, comandante dei mercenari (Stephen Lang), poi, però, viene in contatto con i Na’vi, il loro mondo e la loro perfetta armonia con il pianeta, si innamora di Neytiri (Zoe Saldana), la figlia di un capotribù, finendo così per porsi a capo della "resistenza" all’invasore umano. In tanti hanno cercato di sminuire la storia di Avatar considerandola una lieve variante di quella di Pochaontas, quando, probabilmente, i veri riferimenti narrativi andrebbero cercati all’interno della filmografia dello stesso Cameron; infatti Avatar si inserisce perfettamente nel percorso tracciato dal regista con Aliens, Terminator 2, True Lies e Titanic.


Se il cinema è soprattutto un’arte visiva, Avatar è, senza dubbio, una gioia per gli occhi, visivamente molto potente. Cameron vorrebbe portare lo spettatore all’interno di un’esperienza nuova, un’immersione totale all’interno dell’immagine, della quale non andrebbero minimamente percepiti i limiti; il rettangolo nero ai lati dello schermo è un "rumore" che dovrebbe essere necessariamente evitato; durante la visione del film lo sguardo dovrebbe essere completamente assorbito all’interno del quadro, anche a costo di non riuscire a contenerlo tutto; per questo ho premesso che Avatar è il primo film d’autore "pensato" per gli schermi Imax, l’unico formato che può garantire questo completo "inabissamento" visivo. In questa direzione va anche l’uso, incredibilmente maturo, che il regista fa del 3D, mai effettistico o fine a se stesso, ma semplicemente finalizzato a dare il giusto "spessore" all’immagine, con l’aggiunta di una mobilità della macchina da presa già uguale in tutto e per tutto ai virtuosismi delle pellicole bidimensionali.


Contaminazione (dei generi, delle storie, dei sistemi produttivi, delle forme, dei formati...) è la parola d’ordine per tutti i film di Cameron, che qui viene oltremodo sottolineata (quasi à la Molière) dallo stesso nome del personaggio principale, Sully, che in inglese significa appunto "contaminare, sporcare, insudiciare", ma anche "macchia, chiazza, onta" ed è proprio questa "macchia", questo personaggio imperfetto, il motore del film, che inizia a muoversi insieme al suo protagonista: lui, grazie al suo avatar, riscopre l’uso delle gambe e l’azione entra nella storia. Cameron porta alle estreme conseguenze questa contaminazione stratificando il film di un’innumerevole serie di richiami storici, mitici e cinematografici, che danno allo spettatore un’altrettanto innumerevole serie di chiavi di lettura. Sotto l’aspetto di apologo disneyano sul concetto di uguaglianza e sul rispetto dell’altro e del diverso, il film riflette e fa riflettere su tanti altri temi importanti: la spietatezza del capitalismo, l’ottusità della visione militare della vita, il sostanziale senso di sradicamento del popolo americano e la sua conseguente impossibilità di vivere in armonia con la propria terra, ma anche, e inevitabilmente, le due torri e ground zero, sono solo alcuni degli spunti rintracciabili nel film.


Avatar rappresenta un profondo ripensamento delle forme cinematografiche e del post-moderno in particolare; gli avatar possono essere visti come un’evoluzione dei simulacri di Matrix, così come Pandora è una versione più calda e impressionista del mondo virtualmente pop di Speed Racer; in questo modo Cameron rilegge e rielabora l’esperienza dei fratelli Wachowski, trasportandola in una dimensione diversa, meno fredda, più "umana", come se un asettico manga giapponese si fondesse con Ponyo di Miyazaki e quest’ultimo prendesse il sopravvento. Per correttezza bisogna dire che, nelle quasi tre ore di film, si verifica anche qualche giustificabile passaggio a vuoto e, probabilmente, la parte più debole è quella misticheggiante, che sembra legata al mito del "buon selvaggio", nella quale, comunque, Cameron riesce a rendere sostanzialmente accettabile ciò che altrimenti potrebbe risultare un pericoloso mix di "geoteismo ecologista new age" al limite del didattico.

In conclusione la vera novità di Avatar sta nella riuscita unione degli elementi forti del cinema post-moderno (il 3D, la sparizione del profilmico, l’uso del motion capture, la virtualizzazione dell’immagine e della recitazione, l’inevitabile apertura ad una possibile e probabile serialità della storia, ecc.) con una narrazione drammaturgico-filmica di forte respiro classico. Una sorta di neomodernità in cui tutto quello che riguarda il rapporto tra realtà e rappresentazione, non invade l’immagine, non la stravolge con un pastiche di narcisistiche citazioni, ma rimane a livello di allusione, di condizione più sufficiente che necessaria. In questo senso la "rivoluzione" di Cameron è sicuramente riuscita.

Avatar
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