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Dolore, sogni e falloforie dorate

di Giovanni Pirari
  foto di Ulrich Heemann
Data di pubblicazione su web 09/12/2009  

Nel maggio 1959 Tatsumi Hijikata portò sulle scene lo spettacolo Kinjiki (Colori proibiti). Quella data segnò non solo uno scandalo nel mondo delle arti performative giapponesi, ma anche, e soprattutto, la nascita del Butoh, uno stile di danza difficilmente definibile, che si alimenta delle tradizioni sceniche giapponesi e insieme le attacca, nel rifiuto di codificazioni. Dall’esibizione di Hijikata sono trascorsi cinquant’anni, e per celebrare questa ricorrenza tre danzatori Butoh di stanza a Berlino, Yuko Kaseki, Minako Seki e Imre Thormann, hanno presentato propri lavori negli ambienti del Radialsystmem V, un vecchio impianto di pompaggio sulle rive dello Spree, ora ottimo spazio per ogni genere di esibizioni. La manifestazione, chiamata «50 Years of Butoh», ha aperto il 29 novembre con un simposio dal titolo «50 anni di Butoh – Un inizio», al quale sono intervenuti gli artisti sopra citati, moderati da Sonja Heller. Le performance, che ovviamente hanno costituito il nucleo dell’intera celebrazione, hanno avuto luogo nelle serate del 2 ed 3 dicembre, in entrambe le quali i botteghini hanno fatto il “tutto esaurito”, trovandosi a dover respingere appassionati e curiosi della “danza delle tenebre”.

Imre Thormann Photo by Diego Lopez Calvin
Imre Thormann
photo by Diego Lopez Calvin

Nella prima delle due sere si sono esibiti a succedersi Yuko Kaseki ed Imre Thorman. Kaseki ha presentato Unspelled, concepito e coreografato da lei medesima, con la collaborazione di Rainer Grönhagen alle luci e Antonis Anissegon agli strapazzamenti del pianoforte. Unspelled è una solo performance nata da due precedenti produzioni della stessa Kaseki,  Circle Games of Continuous Cities e Mülltüten (Buste della spazzatura), che si propone «di confrontare il paesaggio del corpo prima delle sue configurazioni linguistiche o d’orientamento», di qui anche il titolo Unspelled che significa “non scandito”, “non pronunciato”. La difficoltà dell’espressione, del dare parola alle proprie tensioni, mi sembra infatti essere il tema intorno a cui si snoda l’esibizione, seppure interrotto da pause di raccoglimento fetale a terra, in cui la danzatrice sembra trovare riposo nel sogno di una pace embrionale. La scena si apre nell’oscurità. Il pianoforte a coda, appena percettibile sullo sfondo, e delle buste di plastica colorate sono i soli oggetti presenti in scena. Kaseki entra dal lato sinistro, lentamente. Voltatasi verso gli spettatori, avvia una sequenza di sforzi di vocalizzazione nei quali concentra tutto il suo corpo, prima muti, poi smorzati, e infine frustrati in brevi suoni frammentati e prealfabetici. È l’inizio della trama di spasmi: la danzatrice raccoglie le buste sparse in una più grande, rossa, in cui serra la testa, esemplificando un soffocamento che troverà più volte espressione nel corso della performance, finanche in prolungate esasperazioni asmatiche del respiro.

Dopo una breve pausa Thormann ha presentato Voyager. Omaggio a mia nonna, un’opera ispirata a due esseri radicalmente differenti, che in comune hanno solo l’essersene andati: come la navicella spaziale Voyager dal nostro sistema solare, anche la nonna di Thormann, morta qualche anno fa, è scomparsa dal nostro sistema di vita. La scena è ancora più spoglia che nello spettacolo precedente. Sul fondo è in piedi Dr. Doering al clarinetto per la regia sonora, dal lato opposto, dal fondo delle quinte, appare il danzatore, dipinto di bianco e in un lungo costume bianco avvolto, per lui creato da Inge Gill Klossner. Quest’abito adempie a un’importante funzione coreografica e narrativa nel corso della rappresentazione, prima per le sognanti volute che disegna intorno al corpo dell’artista, poi, cadendo, per ciò che mostra: un grande fallo dorato, legato all’inguine del performer e imperturbabilmente eretto. Voyager è uno spettacolo di forti sequenze poetiche. A volte una poesia più statuaria, come quando Thormann si sfila l’abito di spalle al pubblico, lasciandone il busto vuoto pendere dietro sé, ma con le mani ancor serrate nelle maniche, sì da sembrare un essere che sorga dal proprio riflesso. Altre volte invece incanta con l’innocente giocosità di un animale, serrando l’abito caduto fra i denti e roteandolo intorno a sé in dolci spirali bianche.  
 

Yuko Kaseki photo by Subudda
Yuko Kaseki
photo by Subudda

La manifestazione si è conclusa giovedì tre dicembre con Second Sleep di Minako Seki. La performance, proposta qui per la prima volta al pubblico, si svolge anch’essa in un dialogo della danzatrice con un musicista, Willem Schulz al violoncello, che si spinge sino all’interazione giocosa, raggiungendo momenti comici, come quando Seki sottrae lo strumento a Schulz, che la minaccia brandendo l’archetto. Second Sleep non si differenzia dagli altri due lavori solo per il maggior coinvolgimento del musicista in scena. Mentre Unspelled e Voyager erano incentrati sul solo corpo del danzatore, nel lavoro di Minako Seki svolge un ruolo centrale la videoinstallazione di Chan Sook Choi, proiettata su due lunghi veli tesi verticalmente al centro della scena. Grazie all’inserzione di quest’elemento gli artisti sono riusciti a ispessire la complessità di rimandi narrativi, intrecciando la danza ed il gioco tra i due performer alle immagini-sogni-ricordi scorrenti sui veli.

«50 Years of Butoh» è stata una manifestanzione ben organizzata e di successo. Percepibile era la soddisfazione generale per il tutto esaurito di entrambe le serate, segno di un crescente interesse per l’arte sfuggente e non consolatoria del Butoh.

50 Years of Butoh


Unspelled
cast cast & credits
 


Voyager. Omaggio a mia nonna
cast cast & credits
 


Second Sleep
cast cast & credits
 


 


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Un momento dello spettacolo
 





 

 
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