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Intervista a Paola Gassman

di Giulia Tellini
  Paola Gassman
Data di pubblicazione su web 24/11/2009  

Bisnipote di Ermete Zacconi, nipote di Renzo Ricci, figlia di Nora Ricci e Vittorio Gassman, Paola Gassman ha cominciato la sua carriera da attrice professionista nel 1968. A partire dal 1980 fino a oggi, in ditta col marito Ugo Pagliai, è alle prese con un repertorio che alterna commedie, drammi e tragedie, testi classici, moderni e contemporanei. Nell’autunno del 2009, in attesa di riprendere le recite (iniziate l’anno scorso) dell’Enrico IV di Pirandello al fianco del marito, è in tournée con l’amara tragicommedia, diretta da Maurizio Panici, Divorzio con sorpresa di Donald Churchill. Parma, Nuovo Teatro Pezzani, sera del 31 ottobre 2009: un’ora prima dello spettacolo, ci accoglie nel suo camerino e, mentre si trucca davanti allo specchio, ci parla della sua vita artistica, dei suoi maestri e anche di quella tanto “amatodiata” «grande famiglia» di cui ha recentemente offerto un affettuoso affresco nell’autobiografia-romanzo di formazione Una grande famiglia dietro le spalle (Venezia, Marsilio, 2007). 

Può parlare degli anni della sua formazione
dopo l’Accademia?

Dopo l’Accademia, la mia prima scrittura è stata con lo Stabile dell’Aquila per uno spettacolo che si intitolava Un debito pagato di Osborne, insieme a Ugo Pagliai, Mariangela Melato, Oreste Rizzini, e molti altri giovani attori di teatro che poi hanno percorso tutti la loro strada. Dato che mi ero appena separata dal primo marito, questa esperienza ha significato per me anche l’incontro con Ugo [Pagliai]: da questo momento è nato il nostro sodalizio di vita e di lavoro, anche se per dieci anni buoni non abbiamo recitato sempre e solo insieme. La nostra ditta teatrale infatti si è formata molto più tardi, nel 1980: da lì in poi, per parecchi anni, abbiamo lavorato quasi esclusivamente insieme. Quindi, il mio primo lavoro è stato Un debito pagato, aveva la regia di Luigi Durissi, che era stato assistente di Giorgio De Lullo, ed era uno spettacolo molto particolare: eravamo in anni un po’ “arrabbiati”, e perciò ci stava bene Osborne, e per di più si trattava anche di un testo tratto da Lope De Vega.

Debuttai all’Olimpico di Vicenza nel settembre del 1968 e, nel 2003, per festeggiare i miei trentacinque anni di attività, sono tornata lì con Il trionfo dell’amore di Marivaux. Dopo il Debito pagato, ho preso parte a vari spettacoli, e poi è arrivato il periodo del Teatro Libero con la regia di Ronconi: l’Orlando Furioso. Sempre in quegli anni ho recitato anche nella Cucina di Arnold Wesker, con la regia di Lina Wertmuller, e soprattutto nella Tragedia del vendicatore che, basato su un testo elisabettiano di Cyril Turner, era uno spettacolo pazzesco interpretato solo da donne: eravamo, credo, cinquanta o sessanta attrici. Secondo me era molto bello e innovativo, però forse un po’ troppo in anticipo coi tempi.

Quella del Teatro Libero (siamo in un periodo che va dall’estate del 1969 all’inizio del 1971 circa) è stata una esperienza molto particolare: era una cooperativa di giovani che si autogestiva, e perciò non aveva mai soldi. Nonostante i trionfi dell’Orlando, andavamo avanti sempre senza paga, praticamente. Abbiamo girato il mondo, siamo arrivati fino in America, sempre in situazioni estremamente precarie. Ne ho fatto parte per tre anni e sono stati basilari nella mia vita d’attrice, e anche nella mia vita personale perché mi hanno dato veramente molto. Trovo giusta la frase di Mariangela Melato che, qualche volta, magari in televisione, dice: «Noi siamo quelli dell’Orlando». «Quelli dell’Orlando» sono una razza a sé: sono quelli che hanno provato tutti i tipi di esperienze, guidati da un genio come è stato Luca Ronconi, soprattutto all’inizio, quando aveva ancora una genialità quasi inconscia. Quello spettacolo, infatti, l’Orlando furioso, gli è addirittura scoppiato fra le mani. Lui pensava di aver fatto uno spettacolo d’élite: voleva poco pubblico. Invece è stato un trionfo. A Parigi, alle Halles, buttarono giù le transenne tanta era la folla che voleva entrare. E siccome era uno spettacolo che si svolgeva tutto su carrelli che si muovevano in mezzo al pubblico, noi avevamo il compito di proteggerlo, perché era pericoloso: gli andavamo addosso, alla gente. Perciò, Ronconi ci spingeva ad essere molto professionali anche nel nostro “essere tecnici”: infatti dovevamo guidare carrelli su cui si trovavano cavalli sui quali stavano gli attori, per esempio.

Lo spettacolo teatrale era davvero qualcosa di unico, che ha segnato un’epoca. Mi ricordo che in America, dove non capirono bene quale ne fosse lo spirito, il pubblico - estremamente formale come poteva essere quello di Broadway in quegli anni - ci considerò dei pazzi. Era uno spettacolo di rottura, come anche l’anno in cui, guarda caso, era nato, ovvero il 1968. E sono molto orgogliosa e felice di averne fatto parte. Ho vissuto questa avventura per circa tre anni. Faticosamente. Perché credo di non aver quasi mai preso la paga (ride)… però riuscivo a mangiare lo stesso… Comunque, sono grata a questi tre anni.

La versione televisiva, a cui peraltro ho preso parte, è bellissima, un film meraviglioso, in cinque puntate, però è tutta un’altra cosa, un altro mondo. Vestivo i panni di Marfisa, mentre in teatro ho interpretato quasi tutti i personaggi, perché ogni attore ne faceva uno solo ma doveva essere pronto a sostituire tutti, a infilarsi nei carrelli anche all’ultimo momento, ecc. Anche la lavorazione di questo film è durata un anno e mezzo, quando invece sarebbe dovuta durare molto meno. Fra una ripresa e l’altra, io ho anche dato alla luce un figlio. A un certo punto, mi chiamarono per un primo piano ed esclamai: «Ma come? Non avete ancora finito?». Poi, la mia avventura con Ronconi si è conclusa… anche un po’ dolorosamente: però era giusto che le cose andassero così, perché trovo che si debba marciare in altre direzioni, per conto proprio, e non fossilizzarsi, anche se la tentazione di farlo era grande in quanto era un regista veramente unico.

Dopo, l’altra esperienza molto bella è stata (ed è tuttora) quella con Ugo, che nel frattempo era diventato il mio compagno e da cui avevo anche avuto Tommaso, nato nel 1973: Ugo fondò una compagnia con Lilla Brignone e facemmo Spettri di Ibsen, dove io ero Regine e la Brignone faceva la signora Alving. Questo spettacolo ebbe un grande successo e lo portammo in giro per tre anni. A questo, seguì il Processo di famiglia di Diego Fabbri. Poi è cominciato il vero e proprio sodalizio professionale fra Ugo e me: cercavamo di conciliare i nostri impegni, per facilitarci un po’ la vita, altrimenti avremmo corso il rischio di stare sempre lontani. Spesso e volentieri, perciò, recitavamo insieme. Insieme abbiamo fatto, mi ricordo, uno spettacolo molto bello che era il Don Giovanni torna dalla guerra di Odon von Horvath. Nel 1975, io avevo fatto anche O Cesare o nessuno, uno spettacolo scritto e diretto da mio padre. Ho avuto solo due esperienze di lavoro con lui, di cui la prima (che è quella appunto di O Cesare o nessuno) indiretta, nel senso che lui aveva curato la regia e scritto il testo ma non recitava: era uno spettacolo particolarissimo, una specie di spettacolo-pretesto, in cui lui voleva parlare della situazione teatrale contemporanea e che mi vedeve coinvolta nei panni di sua figlia. Non ho mai amato questo tipo di situazione: lui sì, però, e sentivo di doverla affrontare. Mio padre infatti ci teneva molto e si chiedeva per quale motivo non avessi mai lavorato con lui.

Fino alla fine ho sperato che lui facesse un Re Lear in cui io potessi interpretare una figlia cattiva. Poi c’è stata una lunga pausa e dobbiamo arrivare al 1980, a Fa male il teatro, per trovare un altro spettacolo in cui recitiamo insieme.

Nel 1981 circa, invece, Gigi Proietti, che era un carissimo amico, mio e di Ugo, e col quale passavamo le vacanze, ebbe l’idea di fare uno spettacolo insieme: lui dirigeva il Brancaccio a Roma e allora cercammo un testo. Trovammo Il gatto in tasca di Feydau: un testo molto divertente, che vedeva in scena anche Mario Carotenuto, e altri attori fra cui Silvana De Santis, ecc. Proietti disse: «Perché non fate ditta?». Ora: l’aspressione “fare ditta” è un po’ antiquata ma ha un significato molto preciso in teatro. La ditta è una compagnia che si chiama coi cognomi degli attori che ne fanno parte e fa pensare un po’ a quello che è stato il teatro all’epoca di mio nonno. Per me era qualcosa di molto familiare, di molto consueto. Quindi si è formata la ditta Pagliai-Gassman e da allora in poi è andata avanti per venticinque anni. In realtà a produrre gli spettacoli non eravamo noi: abbiamo cambiato vari produttori. La nostra ditta, dopo Il gatto in tasca, ha portato in scena, Il bugiardo di Goldoni e poi è cominciata la serie dei Pirandello.

È chiaro che la scelta dei testi veniva fatta in particolar modo da Ugo. Mi sembrava giusto così, perché era motivato più di me, che fra l’altro avevo anche una famiglia di cui occuparmi. A me bastava avere una parte giusta, inserita in un contesto giusto. Mi accontentavo. E provavo piacere se Ugo aveva le sue soddisfazioni. Poi sono cominciati i Pirandello. Il primo è stato Liolà, e poi abbiamo fatto uno spettacolo cui tengo molto, Il piacere dell’onestà, con la regia di Massimo Castri. Per noi fu una esperienza davvero particolare. Con Liolà infatti avevamo avuto una conferma della popolarità enorme della nostra ditta teatrale: popolarità dovuta a tutti e due ma in particolare a Ugo, forse, perché aveva avuto un enorme successo televisivo e quindi era seguito da un pubblico nuovo, un pubblico che magari andava a teatro per la prima volta. Recitavamo a Roma in un teatro di 1300 posti e spesso e volentieri facevamo il tutto esaurito. Avevamo un successo notevole. La regia del Piacere dell’onestà, però, mirava di più a selezionare gli spettatori: il risultato fu buono, nonostante lo spettacolo fosse complesso e la critica un po’ in disaccordo con certe scelte registiche. Secondo me, e non perché ne facessi parte, questa edizione del Piacere dell’onestà è stata una delle più belle: “i conti - infatti, si potrebbe dire - tornavano tutti”. Dopo, con la regia di Luigi Squarzina, facemmo L’uomo, la bestia e la virtù, e lo portammo in giro per due anni: questo spettacolo segnò l’apice dei nostri successi pirandelliani. La regia era molto bella e viva. Poi, sempre con Squarzina, abbiamo fatto Domino di Marcel Achard.

Sono stati dieci anni in cui abbiamo lavorato con la produzione di Pietro Mezzasoma. Poi ci siamo separati da Mezzasoma e c’è stata una piccola fase in cui, nel 1989-1990, con la Stabile dell’Aquila, diretta da Proietti, abbiamo fatto uno spettacolo cui tengo molto: Il padre di Strindberg. Si tratta di un testo difficile e la regia era di Alvaro Piccardi. A partire da questo momento è nato un sodalizio con Piccardi, che poi ha diretto molti altri nostri spettacoli, fra cui Ma non è una cosa seria, che forse fra tutti i Pirandello è quello che mi ha dato più soddisfazione. Poi, siamo passati a un altro produttore privato, Mario Chiocchio, e in questo periodo abbiamo fatto scelte che dovevano andare soprattutto incontro al pubblico: il teatro privato infatti ha questo scopo. Con Chiocchio abbiamo fatto Spirito allegro di Noel Coward, Harvey di Mary Chase, Vita col padre di Clarence Day e Una donna di casa di Vitaliano Brancati, altro testo che mi ha dato molte soddisfazioni.

Dieci anni fa circa, con Il giuoco delle parti diretto da Luca Di Fusco, abbiamo lasciato il teatro privato. Lo stesso Luca ci ha inserito nel Teatro Veneto, che fa capo a Venezia e Padova, e per tre-quattro anni ci ha diretti nel Viaggio a Venezia di Hoffmansthal, nella Bottega del caffè di Goldoni e nel Trionfo dell’amore di Marivaux. Poi, siamo passati alla Stabile di Genova, con la quale abbiamo recitato nell’Urfaust per la regia di Andrea Liberovici e, infine, alla Stabile di Verona, con la quale siamo tuttora, e con cui stiamo facendo l’Enrico IV, spettacolo che ha debuttato la scorsa stagione e di cui fra poco riprenderemo le repliche. Con Verona (sempre, però, in coproduzione col Teatro Veneto) abbiamo messo in scena anche un importante testo di Buzzati, che si intitola Sette piani. Nello stesso tempo, Ugo ha continuato a fare spettacoli anche con Genova, fra cui La Mandragola e proprio in questo periodo l’Aspettando Godot di Beckett. Nel frattempo, io ho portato (e sto portando tuttora) in giro due commedie. La prima è stata L’appartamento è occupato di Jean-Marie Chevret Argot, che ho recitato per due anni: ha debuttato in estate e l’ho poi ripresa in inverno. È una commedia molto vivace, carina, che ha avuto modo di essere rappresentata in un teatro come il Manzoni che si presta bene alla messa in scena di opere brillanti di questo genere. Oggi è più difficile vedere in giro commedie di questo tipo perché i produttore scommettono su testi classici, conosciuti. Invece io ritengo molto importante fare la commedia perchè è molto istruttiva e può dare molte soddisfazioni. Ora sono invece in giro con questo Divorzio con sorpresa di Donald Churchill.

In un modo o nell’altro, da quando ho iniziato a lavorare, ogni anno ho fatto la mia bella tournée. Evidentemente, il teatro, ce l’ho un po’ nel dna. Molti dei miei amici, ad un certo punto, si sono fermati, perché giustamente si sono stancati. Si vede invece che io, il teatro, ce l’ho un po’ nel sangue: mi stanco, perché non è una vita semplice, ma tuttavia ritengo normale farlo, possibilmente a Roma, perché mi piace tanto poter stare a casa, e recitare in un teatro piacevole come il Manzoni, ma nello stesso tempo so che lo spettacolo bisogna portarlo anche in giro. E io lo so più di altri perché i miei lo hanno fatto da generazioni e quindi lo ritengo doveroso. O se non altro, normale.  

Quali considera i suoi maestri da un punto di vista artistico e professionale?

Mah… maestri son tutti quelli con cui ho avuto un incontro piacevole, costruttivo. Non è che ce ne è uno in particolare, di maestri. Quando mi chiedono: «Ma suo padre è stato un maestro?», in realtà penso di no. Lo è stato come gli altri: è stato un grande maestro di professionalità. Però i maestri, quelli veri, io li riconduco ancora all’Accademia. Sicuramente una mia maestra in assoluto, e mai superata, per me, è stata Sarah Ferrati. L’ho avuta per due anni: fra l’altro è fiorentina e anche quasi parente di mio nonno, Renzo Ricci (con cui ha debuttato e col quale ha lavorato per tantissimo tempo). Lei è stata veramente una maestra perché ci ha dedicato - a me e anche ai miei compagni - due anni di insegnamento formidabili, durante i quali ci ha svelato tutti i suoi segreti tecnici. Perché il talento non lo si può dare a un attore: gli si possono dare, però, i ferri del mestiere con cui poter tirare fuori, se c’è, questo talento. Lei sicuramente ci ha dato tutti gli strumenti per farlo. E a me, devo dire, ha prestato una attenzione particolare: perché sicuramente a me la legava un sentimento un po’ diverso, dato che conosceva i miei.  

Mia madre, e lo racconto nel libro [Una grande famiglia dietro le spalle], quando ho deciso di entrare in Accademia (e lei era un po’ contraria… anzi, molto contraria), andò a fare alla Ferrati una pressante “raccomandazione all’incontrario”. Sicuramente, Sarah ha trovato in me qualcosa che mi avrebbe permesso di vivere una vita teatrale giusta. Tanto è vero che quando, alcuni anni fa, mi chiesero di fare una tragedia durante l’estate, io risposi: «No, sono stanca…»: «Volevamo fare una Medea…», continuarono loro. Allora, risentii nelle orecchie la voce della Sarah (che mi aveva fatto portare a un esame il monologo di Medea) che mi diceva: «Tu la devi fare! Un giorno la devi fare Medea!». Io allora l’ho fatta. Però, quando mi hanno presentato la traduzione, ho detto: «No! il monologo lo devo fare nella traduzione di Manara Valgimigli, devo farlo con le stesse parole dette dalla Sarah, perché io ancora me le ricordo tutte». Lei è stata una maestra eccezionale ma severissima: ci fece venire la febbre per provare Il codice di Perelà di Aldo Palazzeschi, che portammo all’esame alla fine del primo anno d’Accademia. Poi c’era da presentare un monologo ed io recitai quello di Medea.

Però, sempre in Accademia, non posso dimenticare Sergio Tofano, e neanche Ione Morino, che è stata un’attrice poco conosciuta ma molto particolare, che mi ha insegnato molto. Ecco: questi sono i miei maestri, quelli che mi hanno dato gli “attrezzi”. Gli altri, per esempio i registi importanti, mi hanno dato moltissimo. Accanto a Ronconi e Castri, non posso scordare le prove con Squarzina. Poi quando ho acquistato un po’ di sicurezza, si sono creati i presupposti perché si potessero realizzare degli scambi vicendevoli fra i registi e me. Però ci sono tante, tantissime, persone che mi hanno “dato”, “insegnato”, e soprattutto “permesso”… Perché essere maestri vuol dire “permettere” al proprio allievo di riuscire a “portare all’esterno” e incarnare l’idea astratta, l’immagine interna che, per esempio, si è fatto di un personaggio.

Non si può mai prescindere da se stessi. Un personaggio devi farlo tuo: guai a imitare! Se mi fossi messa a fare il verso a Ronconi (perché lui un po’ lo chiede questo…) non mi avrebbe interessato. A me interessava capire quello che c’era nella sua testa (il suo pensiero, le idee che aveva riguardo a un personaggio) e poi tradurlo usando i miei mezzi. È una cosa molto più costruttiva rispetto a quella di ascoltare i dettami di un regista e cercare di rifare tutto meccanicamente. In quei casi, io mi perdo e non mi piace, non mi piacciono neppure gli attori che usano questo sistema. Non mi piace scoprire la tecnica di un attore. Amo gli attori con un’anima, che danno qualcosa di sé.  

Quali sono gli spettacoli o i personaggi cui è più legata?

Si è legati all’ultimo spettacolo, sempre. In questo momento sono legata sicuramente a questa commedia [Divorzio con sorpresa] perché mi dà un certo tipo di soddisfazioni. Dopodomani, sarò legata a Enrico IV, perché dovrò ricominciare a pensare come la Marchesa Matilde Spina. Però in effetti, ho un legame particolare con Il padre di Strindberg, uno spettacolo che mi ricorderò sempre, soprattutto quando la gente veniva in camerino per farmi i complimenti, cosa che un tempo si usava fare molto di più. Ricordo che mi dicevano: «Lei è bravissima, però noi la odiamo!». Interpretavo il personaggio della madre, che è terribile; ma io la amavo, la proteggevo quella madre, le davo una grande buona fede, malgrado avesse un estremismo che la spingeva a voler difendere la figlia fino a impadronirsi di lei. I personaggi più difficili sono quelli su cui ti accanisci di più, quelli a cui cerchi di dare un’anima: ti lasciano un segno molto più forte rispetto a quelli che ti riescono più facili. A me piacciono le sfide. Però, al contrario di quello che ha fatto mio padre, io ho scelto di fare questo mestiere per capire, attraverso i personaggi, meglio me stessa. Quindi mi piacciono i personaggi diversi da me stessa, non mi piace essere in scena in prima persona.  

Commedia o dramma?

Mi piace alternare le due cose e per fortuna ci sono riuscita, nel mio piccolo… Sicuramente, infatti, ho avuto una carriera piuttosto ristretta, ma sono io che l’ho voluta così, perché non si può avere una famiglia e nello stesso tempo una carriera a tutto tondo. Anzi, a volte mi meraviglio di aver fatto la carriera che ho fatto. Una cosa, infatti, mi ha dato grande soddisfazione: l’aver potuto fare, alternandoli, tutti i generi. Mi riesce semplice (semplice, fra virgolette…), perché credo che il mestiere dell’attore consista proprio in questo: cambiare, essere pronti a fare la commedia e il dramma… se no, uno non è un attore. Essere attrice significa essere sempre diversa: una volta carina, e la volta successiva brutta, per esempio. In questo risiede il divertimento dell’attore.

Come definirebbe il suo stile recitativo?

Io spero che sia professionalmente integerrimo: attribuisco molta importanza allo studio, al fatto di preparare le cose, di non essere mai sciatta. Forse ne attribuisco anche troppa. È il mio pregio ma anche il mio limite, perché a volte, forse, la fantasia, la libertà possono portare a livelli molto più alti. Tendo a dare molta importanza all’essere puliti, ordinati e professionali. Cose che non trovo spesso nel teatro di oggi. Il fatto di essere così lo sento - ripeto - come pregio e come limite. Ma non potrei fare a meno di essere un tipo di attrice di questo tipo. E poi, mi dicono (perché sono gli altri che devono darmi un giudizio) che sono abbastanza malleabile, perché ho fatto molti generi diversi e riesco a disimpegnarmi bene alle prese con i più svariati tipi di testi… e questa è una caratteristica che non tutti hanno. Mi dicono inoltre che ho una certa eleganza, un certo modo di pormi in maniera armonica di fronte alle situazioni che recito; e questo mi fa pensare a quando mia nonna mi disse: «No! Tu non la puoi fare l’attrice, perché sei troppo alta!». Ci penso ogni volta. Forse noi italiani diamo poca importanza al fisico, lavoriamo di più sulla voce. Però, una certa attenzione al fisico cerco di darla. Credo di avere un mio piccolo metodo di recitazione, molto elementare, molto semplice; ed è quello di rapportare tutto a me, alla mia anima. Perciò, approfondisco i sentimenti, le caratteristiche di un personaggio. Me lo vedo davanti, il personaggio, come parla come si muove, me lo immagino e piano piano gli attribuisco dei tratti che sono miei: come mi comporterei io, cosa farei se mi trovassi nella stessa situazione in cui si trova lui. Quindi c’è, in questo mio metodo, un po’ di Stanislavskij, anche se molto all’acqua di rose. Per un certo periodo, sono stata all’Actor’s Studio, in America, come auditrice, e non avrei mai potuto fare un tipo di lavoro così nevrotico, ecc. Però ritengo che sia importante calarsi in un personaggio e non rimanere in superficie, cercare di sentirlo non solo nella gola ma anche nell’anima, nei nervi, nel temperamento. Poi, dipende… perché, per esempio, nei casi delle commedie bisogna avere una certa tecnica per poter afferrare le situazioni comiche: bisogna avere una sensibilità particolare, che si può, comunque, coltivare e tenere in allenamento. A volte, invece, nei drammi, mi lascio andare di più. Penso all’Ecuba, per esempio: ricordo che mi sono lasciata proprio andare, immaginando quello che può essere lo strazio di una madre. C’è sempre qualcosa di medianico, nel teatro, di vagamente innaturale. A me nella vita fa molta paura perdere il raziocinio, in scena invece ogni tanto è bene anche lasciarsi andare, rimanendo però nello stesso tempo molto presenti e vigili, dato che le battute e le situazioni non possono essere dimenticate o cambiare. Non si può, infatti, andare in scena ubriachi. Detesto quelli che bevono per andare in scena: mio padre lo faceva, ma lui se lo poteva permettere, perché era un vero e proprio personaggio. Io non me lo potrei mai permettere, sarei pessima.  

Buon teatro di regia o buon teatro d’attore?

Ecco: questo è uno dei principali motivi di discussione fra mio babbo e mia mamma. Sono arrivata al punto che ci vogliono tutti e due. E soprattutto ci vuole una certa attenzione verso quello che uno è: come è, chi è, e che cosa sta facendo. Ci vuole anche un po’ di autocritica. Fino a che punto si è grandi? Io credo che un attore di un certo tipo si possa permettere cose che un altro attore, magari meno dotato di personalità, non può: magari se ne può permettere altre, ma non arriverà mai a certi livelli.

Io devo essere catturata da un determinato personaggio, poi lo devo rispettare fino in fondo e devo dargli un’anima che assomigli alla mia, ma che assomigli soprattutto a quella che, attraverso il mio filtro, ritengo sia la sua. Quindi il rispetto di un personaggio o di una situazione (anche di un’idea registica, certo, che però mi deve convincere, e che non deve essere una forzatura) fa sì che poi si possa costruire qualcosa che a volte può essere anche molto bello.

Sono per il regista, quando però il regista collabora con te, quando ti aiuta a costruire, e non quando ti forza, come in determinati casi. Sono per l’attore quando gli riconosco una grandezza particolare. Secondo me il grande attore guidato dal grande regista è comunque meglio del grande attore da solo. È molto difficile che si riesca a trovare la giusta armonia fra attori e regista. Però, per esempio, qualche giorno fa sono andata a Genova a vedere l’Aspettando Godot con Ugo [Pagliai] ed Eros Pagni. Trovo che sia Ugo sia Pagni siano due bravissimi attori e che, pur nella loro diversità, siano riusciti a diventare una coppia, e a inventare un rapporto umano molto preciso guidati da una regia molto attenta come quella di Sciaccaluga.

Ecco: questi sono i connubi che a me piacciono di più; quelli in cui attori e registi portano acqua a un mulino comune e cercano di far vivere un determinato autore, un personaggio, una situazione. Ecco: se io avessi potuto lavorare con Strehler o con Visconti mi sarei abbandonata completamente, con estrema fiducia. Oggi forse è più difficile trovare registi come loro. Però, nel momento in cui mi trovo davanti a un regista molto strano, starei molto attenta a farmi completamente fagocitare (e mi è capitato quando ero più giovane…), perché credo che io non darei molto e che quindi il regista non otterrebbe molto da me.  

L’autore è più importante di tutto, quindi…

Sì. Sicuramente. L’autore va rispettato, soprattutto se è un grande, un classico, come può essere uno Shakespeare, per esempio. Oggi, purtroppo il nostro teatro è un po’ museale, perché va a rivisitare rivisitare rivisitare etc… dato che gli operatori teatrali pensano che il pubblico voglia questo. In effetti, non è tanto vero: noi adesso stiamo facendo commedie nuove e il pubblico viene, ha voglia di vederle, ed è anzi un po’ stufo di trovare nei cartelloni sempre le stesse cose. Invece gli operatori teatrali in generale dicono: «No, quello non va bene perché è un testo sconosciuto».

Allora, quando vai a rivisitare troppo è chiaro che la tentazione di cambiare c’è: a volte questo cambiamento può essere utile se procede nella direzione di approfondire un testo, ma se lo devi straziare no. Perché? Se lo vuoi rapportare di più alla tua epoca, va bene. Perché è chiaro che lo spettatore che va a vedere uno Shakespeare ha bisogno di capirne anche il linguaggio… perché c’è sempre meno attenzione, meno studio, anche nelle scuole… però non devi straziarlo. Ma forse sono un po’ vecchiotta e, se vogliamo, anche un po’ tradizionalista… (ride)  

 

 


 

 

 

 

 

Paola Gassman nel 1975 



 

 

 

 

 


 


Paola Gassman nel 1992 in Spirito allegro di Noel Coward


 



 

 

 

 

 

 


Ugo Pagliai e Paola Gassman nell'Enrico IV di Luigi Pirandello

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 


Elisa Gallucci, Pietro Longhi e Paola Gassman: i tre attori di Divorzio con sorpresa di Donald Churchill

 
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