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La storia fuori campo

di Marco Luceri
  Il nastro bianco
Data di pubblicazione su web 31/10/2009  
L'uscita di un film di Michael Haneke è già in sé un fatto importante per il cinema d'autore contemporaneo e poco importa se il regista austriaco, pur vincendo la Palma d'Oro al Festival di Cannes, sia stato accusato per aver incassato una vittoria già scritta (essendo presidente di giuria una delle sue attrici-feticcio, ovvero madame Isabelle Huppert). Rituali polemiche post-festivaliere a parte, l'arrivo nelle sale italiane de Il nastro bianco fuga il campo da qualsiasi dubbio: siamo di fronte a un film importante, forse il più significativo tra quelli sfornati dal cinema europeo in questo travagliato 2009 di crisi.


 
Affidandosi per la prima volta a un bianco e nero che ricorda tanto la prima serie di Heimat, Haneke opta per una sorta di “raggelamento” dell'immagine, il che forse non dovrebbe stupirci più di tanto se pensiamo che i colori dei suoi ultimi film, tra cui La pianista e Caché, hanno già in loro un tentativo di essere svuotati del loro valore espressivo, per convogliare verso un grigiore intenso e straniante. Questa significativa variante vale tanto più se si considera l'ambientazione del film, quella di uno sperduto villaggio luterano immerso in una provincia settentrionale del Reich tedesco, alle soglie della Grande Guerra. Nella piccola comunità, dove vigono rigide gerarchie sociali di stampo feudale (il barone è di fatto il “padrone” e i contadini sono i suoi servitori, la borghesia è ridotta alle solitarie figure del maestro di scuola, del pastore e del medico), avvengono strani fenomeni, che con il passare delle settimane si fanno sempre più efferati: incidenti, sevizie, morti inspiegabili turbano la patina di tranquillità che emanano le casupole e le stradine di questo piccolo borgo da favola.


 
Come nelle migliori rappresentazioni nordiche che si rispettino, dietro l'ipocrita parvenza di un mondo in cui ognuno ha il dovere di avere il suo posto e la sua ragione di vita, si nascondono i peggiori istinti della razza umana: l'invidia, il rancore, la violenza, il razzismo, l'egoismo, la sessualità repressa e soprattutto l'incapacità di amare. Ne Il nastro bianco nessun componente della comunità è esente dall'essere investito da questa ondata di malvagità imperante e questo è uno dei principali pregi del film: non ci sono né buoni né cattivi, come non vi sembrano essere apparenti via di fuga da questo microcosmo in cui ognuno stenta a riconoscersi pur dovendoci star dentro con anima e corpo. Il senso di claustrofobia che emanano sia gli interni che gli esterni (splendidi e pittorici soprattutto quelli invernali) è denso di fatalismo e l'andamento volutamente episodico del racconto ne è un tratto essenziale. Allo spettatore il compito di ricostruire e mettere insieme le varie vicende per scoprire alla fine che dietro i possibili colpevoli si nasconde in realtà un vero e proprio modo di intendere il vivere civile degli esseri umani, basato sul terrore e l'odio reciproco. Haneke non ha la carica spirituale di Dreyer, né tanto meno la malinconica leggerezza di Bergman, tuttavia resta forte l'indagine sul quel senso di colpa che è da sempre uno dei temi preferiti del suo cinema. Quando il giovane maestro confessa all'arcigno pastore i suoi sospetti mette in crisi e ribalta l'assunto iniziale del film, giocato sul rapporto generazionale e sociale, nella dialettica padroni/genitori-cattivi, servi/figli-buoni. A saltare è proprio questo meccanismo di facile identificazione, per cui ogni volto può nascondere un senso di rivalsa che sfocia nel fanatismo e nella mania, anche quello più innocente e apparentemente puro.


 
Haneke, immergendo con altissima sapienza la sua macchina da presa in questo girone infernale sotto forma di cartolina paradisiaca, lascia che siano le immagini a raccontare il girare a vuoto e senza senso di tutti i suoi infimi personaggi, lasciando alla camera fissa e al fuori campo la stessa importanza delle inquadrature narrative: un procedimento, questo, che è diventato un tratto essenziale del suo stile (si pensi ancora una volta a Caché, mirabilmente costruito sul valore del “non-visto”). Un chiaro avvertimento a lasciar debordare il film oltre il quadro, attivando un meccanismo “perverso” che dal cinema si trascina nella realtà e viceversa.
 
PS: Gran parte della critica ha ravvisato nel film un giudizio di carattere storico: la generazione di ragazzini che vediamo ne Il nastro bianco è quella che spianerà la strada al nazismo. Può darsi. Vale sicuramente l'assunto generazionale, ma a mio modesto parere appare assai riduttivo e autoconsolatorio ricondurre i temi del film solo a questo. Credo che il discorso di Haneke investa invece tutto il senso di una civiltà (quella occidentale), della Storia intera, di cui il nazismo fu solo una temporanea e orribile conseguenza. Siamo sicuri che quel tempo sia finito con la fine del Terzo Reich?

Il nastro bianco
cast cast & credits
 



Michael Haneke


 
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