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Intervista a Sonia Bergamasco

di Giulia Tellini
  Sonia Bergamasco
Data di pubblicazione su web 19/10/2009  

Alle spalle un diploma in pianoforte e una formazione teatrale alle scuole di Giorgio Strehler, Massimo Castri e Carmelo Bene, Sonia Bergamasco è una delle attrici più interessanti nel panorama teatrale, ma anche cinematografico e televisivo italiano. Da anni affascinata da un tipo di teatro che coniuga con modalità inedite parole e musica, è a Firenze per presentare, nell’ambito del “Tempo Reale Festival” (6-13 ottobre 2009), il suo nuovo spettacolo vocale-musicale, Esse di Salomé, liberamente tratto da alcuni frammenti dell’Erodiade di Stéphane Mallarmé.  

Può parlare della sua formazione?
La mia formazione è prima di tutto musicale, perché a 10 anni sono entrata al Conservatorio di Milano e mi sono diplomata in pianoforte nel 1987. Subito dopo il diploma, ho cominciato il mio percorso teatrale, perché si apriva in quell’anno il Nuovo Piccolo. Dal 1987 al 1990, ho seguito il corso “Copeau” che era il primo della Scuola del Piccolo, e nel frattempo, nel 1989, ho anche preso parte al Faust, che è stato l’ultimo progetto teatrale di Strehler e che ha coinvolto allievi e attori professionisti. Dopo la scuola staccavamo ed entravamo in teatro. Per me è stata una pratica molto importante, sia di scena che di lavoro. Nel 1991, alla fine del ciclo di studi, abbiamo preso parte a un Arlecchino servitore di due padroni che ha girato sia in Italia che all’estero. Si trattava di un Arlecchino dei giovani, dato che si alternavano nei vari ruoli tutti gli ex allievi, ed è stato uno spettacolo molto gioioso e felice per tutti.

Questi anni al Piccolo per me sono stati anche sconcertanti perché venivo dalla musica, venivo da un ambiente completamente diverso, da un lavoro solitario, da una chiusura esistenziale e artistica, e forse proprio per questo motivo andavo alla ricerca di qualcosa contro cui scontrarmi. Ho faticato abbastanza in questi tre anni perché era una scuola esigente, una scuola radicata nei valori di una grande tradizione che doveva essere accettata. Però, sicuramente è una scuola mi ha dato una forte impronta. Dopodichè, ho subito lavorato: mi sono staccata dal Piccolo, e ho lavorato con Glauco Mauri. Ho fatto la reginetta del Riccardo II, uno spettacolo firmato da Mauri e in cui c’era anche Roberto Sturno. Questo è stato il mio primo lavoro di teatro di compagnia e di giro: un giro, fra l’altro, molto faticoso, durato sei mesi. Mauri è un meraviglioso uomo di teatro, mi sono trovata benissimo. Poi c’è stato l’incontro con Massimo Castri, che è avvenuto quando stavo ancora a Milano e gravitavo nell’orbita del Piccolo: lui faceva un progetto europeo, in collaborazione col Teatro Studio, in cui doveva coinvolgere alcuni giovani attori. Ne vide alcuni e mi scelse per un progetto Marivaux: La disputa. Si mise, così, in scena questo testo di Marivaux, che è un testo lunare e sconvolgente, che abbiamo realizzato al Teatro Studio con la scena di Maurizio Balò e la regia di Castri. Lo spettacolo nasceva e moriva al Teatro Studio, però è stato un progetto per me molto liberatorio, perché per la prima volta ho sentito il piacere di un fare teatro legato a una corda dell’infanzia: cosa che finora non avevo mai veramente sperimentato. Quindi sono grata a Castri per questa scoperta. Poi ho lavorato a lungo con lui: in un altro Marivaux, Il gioco dell’amore e del caso, e poi nell’Ecuba con Anna Proclemer, dove io ero Polissena, la figlia della protagonista. Ho lavorato circa cinque anni con lui…  

Anche nella Trilogia della villeggiatura di Goldoni…
Sì, anche nella Trilogia. Castri era - ed è - molto interessato a lavorare con un gruppo giovane, solidale, e nella Trilogia questo gruppo si è venuto felicemente a creare. In Italia è difficile che si possano realizzare le condizioni per mettere in scena una intera trilogia in un arco di tempo lungo come due anni e mezzo: per due anni e mezzo, infatti, abbiamo lavorato alla relizzazione e alla distribuzione di questo spettacolo. Poi in scena, alla fine di tutto il percorso, portavamo tutte e tre le commedie. Era una cosa quasi da antica tradizione ottocentesca, perché si ritornava al repertorio. Per un attore è una bella possibilità.

Dopo Castri?
Dopo Castri: Carmelo Bene, senz’altro. Naturalmente ci sono stati altri incontri, però, diciamo che quello con Carmelo Bene per me è stato l’Incontro con la “i maiuscola”: mi riallacciava al mio percorso musicale e rispondeva a tante domande che mi ponevo da tempo e a cui non riuscivo a rispondere nella pratica del fare teatro. Infatti, io che avevo imboccato fin dall’inizio la strada del musicale, mi trovavo alle prese con un repertorio per voce che non avevo mai abbandonato e su cui da anni continuavo a lavorare, anche se non più come pianista. Facevano eccezione alla regola i casi in cui mi veniva chiesto di suonare qualcosa in uno spettacolo, oppure, più tardi, nel cinema, quelli in cui era previsto dalla sceneggiatura. Sostanzialmente, però, il mio percorso musicale è avvenuto attraverso la voce e ho cercato di indagare quale fosse il repertorio già esistente, in ambito musicale, per voce da attrice-cantante. E poi volevo andare anche verso una ricerca di nuove scritture mie o altrui, a partire dalla musicalità e dal suono della parola. Quindi il lavoro con Carmelo Bene, per me è stato quello che ha dato una risposta alle mie domande.

Come vi siete incontrati?
Ci siamo incontrati senza pensare a uno spettacolo: è stato lui a chiedermi di lavorare insieme. Un’amica mi ha detto che Bene stava vedendo delle ragazze perché era alla ricerca di una nuova collaborazione, non si sa bene per cosa. Questo mi ha incuriosito molto. Lui stava lavorando con Elisabetta Pozzi all’Adelchi, che avrebbe di lì a poco ripreso. E quindi ho assistito a queste prove deliranti dell’Adelchi, in cui molte voci di ragazze che erano convenute non si sa bene per cosa si alternavano a quella di Elisabetta Pozzi, che era poi in definitiva la titolare del lavoro. In tal modo, faceva i provini, dato che stava cercando una ragazza. Poi, si incuriosì della mia presenza (io me ne stavo in un cantuccio, abbastanza spaventata…), mi chiese di leggere qualcosa, e mi propose di lavorare insieme a lui. Aveva un finanziamento ministeriale che gli dava la possibilità di fare un anno di ricerca insieme a uno o più attori per poi, alla fine, realizzare un “evento”. La fortunata prescelta per questo lavoro di studio sono stata io. È stato un lavoro che si è protratto per un anno e mezzo circa, e che poi è sfociato in Pinocchio. Ovvero lo spettacolo della Provvidenza. Per un anno e mezzo, però, abbiamo fatto un lavoro musicale sulla parola, e abbiamo studiato molti testi, anche se poi alla fine abbiamo fatto il Pinocchio. Fra l’altro, in questo spettacolo io ero in azione. Cioè, non ero in azione vocale ma in azione fisica: quindi Bene mi ha ammutolita; c’era solo una parte dove si sentiva la mia voce registrata ma anche lui era tutto in playback. Il lavoro di studio è stato molto su Leopardi e su D’annunzio, anche se alla fine abbiamo messo in scena Pinocchio. Bene ha messo in scena il testo varie volte, prima con tutti i personaggi principali, poi diminuendoli sempre di più e, alla fine, è arrivato al punto che in scena eravamo solo lui ed io: lui che faceva Pinocchio e io che facevo la Fatina e anche tutti gli altri personaggi. Indossavamo meravigliose maschere realizzate da Tiziano Fario, che ha sempre collaborato con Bene negli ultimi anni e che rendevano quest’ultimo Pinocchio anche un gioco fregoliano, di travestitismo. Anche questo spettacolo era legato molto profondamente all’infanzia, e perciò per me indimenticabile: stare in scena era un piacere puro, era come un gesto di gioco assoluto. Quindi per me rimane uno degli spettacoli che, nel momento di fare, mi è piaciuto di più.

Fra i suoi maestri chi può ricordare?   
Carmelo Bene, non c’è dubbio. Poi vorrei anche parlare di alcuni amici artisti che per me sono un riferimento e con cui desidero collaborare. Tra questi, Valter Malosti che è un uomo di teatro e amico di lunga data col quale spero presto di cominciare un lavoro pensato e relizzato insieme. E poi Fanny & Alexander, con cui sono in contatto e in amicizia da tempo attraverso Goffredo Fofi e il Teatro delle Albe (Ermanna Montanari e Marco Martinelli che sono anche loro persone di teatro uniche in Italia). C’è un teatro vivo in Italia, oltre alla maniera, oltre al teatro che tutti conosciamo, c’è un teatro che sta lavorando per il presente e per il futuro ed è importante che questo venga sottolineato. In questo momento, invece, sto collaborando col percussionista Rodolfo Rossi per uno spettacolo che si intitola Concerto della fine del mondo, basato su testi di Vladimir Majakovskij, Antonio Delfini e Amelia Rosselli. Si chiama “concerto” perché è un tipo di teatro musicale, un teatro che cerca la musica e cerca il dialogo con la musica. Ed è proprio questa la strada che mi interessa, la direzione che ho preso e nella quale cerco di addentrarmi sempre di più.

In questo spettacolo lei leggerà dei testi?
Sì, leggo. Però è uno spettacolo, non è una lettura. È un’azione scenica. La lettura, della quale ho il massimo rispetto e nella quale credo fortemente proprio perché è una grande forma di libertà per l’attore in scena, forse viene percepita come qualcosa di convenzionale: «l’attore leggerà testi da…». No, non è così. Qui c’è una drammaturgia, un pensiero di teatro e un gesto teatrale. Anche se poi in parte si leggerà, è importante che si capisca che è uno spettacolo, che è un recital agito in scena. Non è una lettura in cui arriva l’attore, dice le sue cose, poi arriva l’altro, suona le sue cosine, ecc ecc. No: non è così.

Per quanto riguarda il suo percorso come attrice cinematografica?
Il cinema è arrivato dopo che avevo fatto parecchio teatro. Ho incontrato un regista milanese, Silvio Soldini, che frequentava i teatri, mi aveva visto nella Disputa di Castri e proprio in quel periodo, nel 1994, mi chiamò per realizzare un cortometraggio. Mi fece un provino in cui diedi tutto il peggio che potevo dare. Non avevo nessuna esperienza, non sapevo in cosa consistesse la sottrazione del lavoro cinematografico. Mi prese lo stesso. Ebbe fiducia nelle mie possibilità e mi scelse per fare la protagonista di questo corto, D’estate, che per me è stato proprio il primo approccio - bello e fortunato, devo dire - col cinema. Era un progetto che si articolava in tre cortometraggi, uno di Soldini, nel quale ho lavorato, uno di Paolo Rosa, col quale ho lavorato dopo, e uno di Mario Martone. Però ciascun cortometraggio è stato fatto autonomamente. Poi, questi corti sono stati radunati sotto il titolo Miracoli e proiettati al Festival di Venezia. Questo è stato un inizio, però è stata anche una parentesi, perché dopo ho continuato a fare teatro. Più tardi, invece, è arrivata la proposta da parte di Paolo Rosa di collaborare con lui ne Il Mnemonista, che mi è piaciuto molto fare. Nello stesso tempo, partecipai anche a un film di Kiko Stella, Come si fa un Martini. Sostanzialmente, però, il lavoro principale per me è stato quello con Paolo Rosa, con cui mi sono trovata benissimo. E poi, a dire il vero, non è che ho fatto molti film per il cinema. Ho fatto La meglio gioventù, ho lavorato con Franco Giraldi in un giallo che si chiama Voci, e con Giuseppe Piccioni in Giulia non esce la sera. Adesso sto lavorando con Riccardo Milani in Tutti pazzi per amore, che è una fiction per la televisione, con la sceneggiatura di Ivan Cotroneo, che mi ha aiutato molto. Ho sempre avuto e ho il desiderio di commedia, di una commedia fatta bene, e mi piacerebbe molto che anche nel cinema si si realizzasse un progetto di questo tipo. Tutti pazzi per amore è stato un primo approccio con la commedia surreale e musicale. È il secondo anno che la faccio e, adesso, però, smetto perché voglio fare altre cose. La seconda serie di puntate, in particolare, mi ha soddisfatto molto perché ha una sceneggiatura molto brillante. E credo che nella formazione di un attore ci debba essere anche la commedia.

Cosa può dire della sua esperienza con Giordana ne La meglio gioventù?
È un film che ha avuto tanta fortuna. Ma io prima ho lavorato con Giuseppe Bertolucci ne L’amore probabilmente, e questo mi interessa dirlo. Per me, quello con Bertolucci è stato un momento molto importante di lavoro. Mi interessa che sia detto. Perché, in quella occasione, c’è stata una forma di libertà nella creazione del personaggio e del non-personaggio: perché si entrava e si usciva sempre dalla storia. C’era sempre un racconto che si negava: c’era l’attore e c’era il personaggio. Però non si riusciva a capire se fosse più recitato l’essere attore o l’essere personaggio. Comunque, con Giuseppe, c’è stata una libertà e una collaborazione straordinaria. Gli sono molto amica, e sono molto felice di essergli vicina perché è un bellissimo artista. Quello è stato veramente il mio primo film. Perché dovevo mettermi in spalla questa grande responsabilità di reggere sia la narrazione che la non-narrazione presenti nel film; ma nel fare questo sono stata portata per mano.

Mi piace molto la scena in cui, verso la fine de La Meglio gioventù, Giulia, il personaggio da lei interpretato, incontra sua figlia…
È una scena che amo molto quella. Inoltre, a me piace molto la mia immagine invecchiata. Anche con Liliana Cavani, per esempio, con cui ho lavorato per i film tv De Gasperi ed Einstein, c’è stato un bel percorso di invecchiamento che mi ha molto emozionato. Nella scena della Meglio gioventù non ero ancora madre come lo sono adesso e quindi ho dovuto lavorare di immaginazione. Il rapporto madre-figlia era descritto in modo molto toccante nella sceneggiatura e questo mi ha aiutato a pensare a questo vuoto che è in Giulia, a questa mancanza, a questo mutismo degli affetti che poi trova una via d’uscita.

Quale personaggio o quale autore le piacerebbe portare in teatro?
Non mi interessano i personaggi. A dire la verità, non sono legata ai testi. Sono legata ai testi intesi un po’ come pre-testi. In ciascuno dei veri drammaturghi si può trovare qualcosa per poi sviluppare un gesto teatrale importante. Però, non ho un personaggio del cuore, né un autore che vorrei interpretare. Non mi interessano i personaggi, mi interessa il teatro, mi interessa il fare teatro. Anche in questo spettacolo che sto facendo adesso [Esse di Salomè, dall’Erodiade di Mallarmé] c’è una drammaturgia: sì, c’è Erodiade, c’è Salomè, ma non è che io racconti Salomè, non mi interessa raccontare Salomè. Mi interessa entrare nel teatro della parola, mi interessa sviscerare la parola, mi interessa - attraverso il suono, la musica della parola - ritrovare il gesto poetico, il gesto del personaggio, il respiro del personaggio.

Se si riesce a entrare nel suo respiro profondo, la poesia ricongiunge con una narrazione e dipana un filo rosso. Magari non si tratta, per esempio, di una storia che racconta dall’inizio alla fine morte e miracoli di una persona, o che descrive una situazione. Però racconta qualcosa di più e, alla fine, si scopre che ci è rimasto dentro qualcosa di più, qualcosa che sta oltre la storia, oltre il personaggio. La stessa Eleonora Duse, che ha fatto solo personaggi e teatro di repertorio, era però una presenza così forte che travalicava ogni personaggio e ogni storia, e che anche nel silenzio riusciva a esprimersi in modo assoluto.

Riesce a trovare connessioni fra la sua carriera come pianista e quella come attrice?
Sto cercando adesso di riportare questa artigianato della tastiera sul palcoscenico. Ho provato a farlo attraverso un recital, che però io considero uno spettacolo perché è agito come una azione teatrale in cui cerco un corpo a corpo con la poesia: cosa che è sempre una mia necessità. Io non credo nella lettura poetica. Io non credo in quello che spesso viene presentato come “lettura poetica”. Credo che la poesia possa trovare uno spazio di teatro, che però non è assolutamente la teatralizzazione della singola poesia, che è un percorso secondo me erroneo, ma un “teatro per la poesia”. Nel mio nuovo spettacolo, che si intitola Croce e delizia, che è nato da una commissione che mi è stata fatta dall’Auditorium di Roma, mi avevano chiesto una lettura di Penna e Rosselli. Amelia Rosselli la conoscevo già da parecchi anni, Sandro Penna molto meno. Siccome non mi interessava fare una lettura ma mi interessava trovare per me un bandolo della matassa, ho scritto una drammaturgia, ed ho fatto cioè una scelta prendendo versi e frammenti dall’uno e dall’altro, e anche giustapponendoli e incrociandoli e sezionandoli e lavorando anche in una maniera musicale con i testi. Ho riproposto alcuni versi come ritornelli, altri come strofe per poi costruire una poesie più grande. Ne è venuta fuori una drammaturgia di versi che era in dialogo musicale con una drammaturgia musicale basata su una mia scelta di brani da Schumann, Bach, Mozart e Bartok. Ne è venuto fuori un oggetto strano che però il pubblico ha accolto come qualcosa in cui riusciva a entrare dentro anche con facilità. Era come se la parola cantasse e la musica parlasse. Era come se si intrecciassero i due linguaggi, quello musicale e quello poetico.

Lei è anche cantante?
Sì, però il mio interesse e il mio lavoro risiedono in una parola che si articola e che arriva anche all’intonazione, arriva anche al canto. Però sempre in una ricerca vocale teatrale, in una ricerca del suono della parola.

Per quanto riguarda la recitazione tradizionale: immedesimazione o straniamento?
Ci devono essere entrambe le cose. Devono essere conosciute e attraversate le due tecniche, le due possibilità per poi probabilmente trovare una terza via, o una quarta o una quinta…


 

 

 

 


 



Sonia Bergamasco





 

 
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