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Benarrivato, Michael Moore!

di Luigi Nepi
  Capitalism: a Love Story
Data di pubblicazione su web 09/09/2009  

“Stai dalla parte di chi rapina le banche o di chi le ha fondate rubando?” Questo è l’assunto brechtiano che sta alla base dell’ultimo film di Michael Moore (sul quale è uscita l'attesa monografia della casa editrice Il Castoro), che inizia proprio mostrando le immagini delle telecamere interne delle banche durante rapine più o meno scalcinate: niente colpi spettacolari ma disgraziati in tuta, pistola, bavaglio e sacchetto di plastica che fanno pensare più al Woody Allen di Prendi i soldi e scappa che al Clive Owen di Inside Man, tanto che, alla fine del film, sussistono pochi dubbi su quale parte preferire. Per certi versi il film potrebbe anche finire qui in queste riprese sgranate da real tv, c’è già tutto: la disperazione degli improvvisati rapinatori e la compostezza degli impiegati delle banche che li lasciano fare nella certezza di non rischiare niente. Ma ovviamente Moore va oltre, molto oltre.

Al contrario di Videocracy di Erik Gandini sulla “presa del potere” di Silvio Berlusconi, che per non complicare troppo il discorso lavora per sottrazione, tant’è che incentra il film solo su Lele Mora e Fabrizio Corona Moore, come sempre, procede per accumulazione. Ecco che nel suo film troveremo: il “ceto medio” rovinato dai mutui e dalle ipoteche sulle case, i piloti con il doppio lavoro, la General Motors, le banche, i derivati, il fallimento della Lehman Brothers, la disoccupazione, il socialismo, la chiesa, la costituzione, Albert Sabin, Roosvelt, Carter, Reagan, Bush Jr., Obama, le lobbies perfino l’uragano Katrina, oltre, ovviamente, al capitalismo del titolo. Così facendo, però, il rischio è quello di mettere troppa carne al fuoco e far un po’ di confusione nella testa di chi guarda.

Da ormai venti anni (Roger & me è del 1989) i film di Michael Moore sono un genere a sé e Capitalism: a Love Story non tradisce le aspettative, rientrando a tutti gli effetti in questo genere di film, che si compone del solito mix di storie toccanti di gente comune, interviste, filmati di repertorio, telegiornali, il tutto condito dai consueti siparietti comici più o meno efficaci. Ciò che viene fuori è la documentazione di un punto di vista, o meglio, l’esposizione di un teorema ben preciso, ma realizzato come se fosse il working progress di una presa di coscienza, in cui il narcisismo e l’autoreferenzialità del regista la fanno da padrone (prende di nuovo la sua famiglia come esempio tipico di american way of life degli anni ’50 e ’60).

L’idea che si ricava vedendo il film è che ciò che sta succedendo negli Stati Uniti in questo periodo sia la degenerazione di una teoria tutto sommato giusta: non si mette in discussione il capitalismo tout court, ma, casomai, come è stato frainteso. Solo in un’intervista ad un supermanager se ne intuisce la vera natura, quando questi dice di vedere nel capitalismo una necessità e nella democrazia un accessorio, Insomma, il capitalismo è un sistema che asseconda la natura umana senza pensare minimamente di correggerne i limiti, quindi la crisi che stiamo attraversando oggi non è un equivoco ma una possibilità perfettamente compatibile con questo tipo di economia (in proposito basta vedere le complicatissime espressioni matematiche che stanno alla base di quei prodotti bancari tristemente noti come “derivati” e l’impossibilità a spiegare cosa siano da parte di chi ha contribuito a crearli).

Resta, comunque, il fatto che i film di Michael Moore, pur non avendo niente a che fare con il cinema ed ancor meno con il documentario, sono indubbiamente necessari, soprattutto per il lavoro di ricerca e valorizzazione delle riprese amatoriali che diventano i veri scoop del film, riuscendo così a veicolare informazioni e situazioni che altrimenti resterebbero totalmente nascoste dall’inevitabile censura. Dopo la crisi dell’industria automobilistica (Roger & me), le stragi nelle scuole (Bowling for Columbine), la guerra in Iraq (Farenheit 9/11) e l’inesistenza del sistema sanitario americano (Sicko), finalmente Moore ha puntato in alto trovando la causa che sta alla base di tutto ciò. E adesso, quale sarà il prossimo bersaglio?

 

Capitalism: a Love Story
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