Se è vero, come diceva Pasolini, che la traduzione più bella è la più infedele, allora ci sono ottimi motivi per preferire questa Iphigenie auf Tauris rielaborata da Richard Strauss alloriginale Iphigénie en Tauride, composta nellidioma di Racine dal tedeschissimo Christoph Willibald Gluck, che trovò in terra di Francia la sua seconda patria e la sua seconda lingua. Laspetto paradossale della vicenda, semmai, è che a tale aureo tradimento Strauss mise mano con lintenzione opposta: realizzare una traduzione tedesca del libretto di Guillard più fedele di quella già da tempo disponibile (ne era stato autore Johann Baptist von Alxinger) e tale da mantenere il metro delloriginale. Né il ventiseienne Strauss di allora già con grandi successi sinfonici alle spalle, ma ancora pressoché vergine in ambito operistico pensò minimamente a una creazione teatrale propria: la revisione dellIphigénie reca come sottotitolo «Für die deutsche Bühne bearbeitet von Richard Strauss», quasi a voler sancire, sottolineando la natura di mero adattamento per le scene tedesche, la sua rinuncia a qualunque patente di “autorialità”. Accade, tuttavia, che le intenzioni iniziali sfuggono di mano ai grandi autori assai più che non alle personalità di minor spicco. Così, al di là della restaurazione librettistica, Iphigenie auf Tauris presenta i crismi di un capolavoro autonomo, o meglio nella speranza, così dicendo, di non scandalizzare i gluckiani della trasformazione di un lavoro interessante in un capolavoro autentico.
La mitologia greca, daltronde, avrebbe poi rappresentato per Strauss la maggior fonte dispirazione del suo teatro (vi attingerà per quattro titoli del proprio catalogo operistico): si può anzi dire, col senno di poi, che grazie a questa rielaborazione intorno a un personaggio come Ifigenia, figlia di Agamennone, il compositore preparò la semina per quel raccolto il cui frutto più prezioso sarà Elektra, ossia unopera incentrata su unaltra delle figlie del re di Micene. Il risultato fu un lavoro di sintesi drammaturgica (i quattro atti ridotti a tre, i momenti dindole cerimoniale-esornativa tutti potati
), inversamente proporzionale a quello di dilatazione della scrittura orchestrale, e in cui lagglutinamento delle consonanti, proprio della lingua tedesca, si sostituiva alla “melodiosità declamata” del testo francese, trasmettendo alleloquio dei personaggi un senso di faticosità speculare alla fatica di vivere della protagonista, di Oreste e di Pilade. Dunque, sottraendo Gluck alla dimensione marmorea della tragédie-lyrique e proiettando la sua eroina verso più devastanti inquietudini, Strauss andò ben oltre una rinnovata fruibilità dellIphigénie per il pubblico tedesco, che daltronde, dopo lIphigenie auf Tauris di Goethe, aveva questo soggetto nel proprio lessico familiare. Piuttosto, lancorò alla nascente sensibilità novecentesca: così come Wagner riscrivendo a suo tempo il finale dellaltra Ifigenia, quella «in Aulide» laveva rapportata alla sensibilità romantica.
Iphigenie auf Tauris
Interessantissima in se stessa, questoperazione di recupero (la “versione Strauss” è una novità per il pubblico italiano) va però inquadrata in un progetto più ampio del Festival della Valle dItria: da un lato perché un paio danni fa venne programmato lIdomeneo mozartiano riorchestrato da Strauss, e dunque questa Iphigenie auf Tauris diventa ulteriore tassello duna sorta di piccolo filone; dallaltro perché pochi giorni prima, sempre a Martina Franca, si era potuto vedere lOrfeo ed Euridice revisionato da Johann Christian Bach. Come dire: lì un Gluck “barocchizzato”, che sembra guardare indietro, qui un Gluck proiettato in avanti. A tale postdatazione si è ben adeguata la regia di Oliver Kloeter, che scegliendo la via duna messinscena in abiti moderni propone, a ben vedere, lo stesso percorso compiuto da Strauss: portare Gluck alla sensibilità dello spettatore, anziché viceversa. E quanti nellintervallo stigmatizzavano lambientazione contemporanea, rimpiangendo lallestimento scaligero di Visconti con Ifigenia / Callas uscita da un quadro del Tiepolo, cadono in contraddizione: la prospettiva viscontiana unIphigénie di figuratività settecentesca era la stessa di questo spettacolo, con la sola, fondamentale differenza che lì si dava lopera senza innesti straussiani. Dunque, nelledizione Callas-Visconti, un mito greco rivisto con gli occhi del Settecento gluckiano; qui un Gluck rivisto con gli occhi di Strauss, e dunque modernizzabile senza forzature.
Lallestimento di Kloeter, nella sua semplicità, è daltronde ricchissimo di sollecitazioni visive, a cominciare da un palcoscenico letteralmente diviso in due marmo a sinistra, un muro sbrecciato a destra che sembra rispecchiare la doppia anima (Gluck e Strauss, neoclassicismo e Novecento) di questo lavoro. Laltra grande dicotomia drammaturgica dellopera scene di massa versus momenti di totale interiorità viene risolta spostando lazione dal palco a una passerella che, oltrepassando lorchestra, conferisce ai personaggi degli ideali primi piani. E la dimensione onirica nelle luci, nella recitazione, nella molteplicità di significato che assumono unombra o una scrostatura dintonaco aleggia fortissima, quasi a volerci ricordare la contemporaneità tra Iphigenie auf Tauris (cui Strauss attese nel 1890, ma che approdò sulle scene solo dieci anni dopo) e lInterpretazione dei sogni di Freud.
Iphigenie auf Tauris
Bellezza autentica ma non vistosa, interprete concentratissima, Olga Kotlyarova è una protagonista ideale per questo spettacolo. Voce drammatica quanto ad accento e fraseggio, ma lirica per impasto, sfoggia comunque una ricchezza di suono e colori che le consente di superare senza affanni né monotonia un ruolo che la vede quasi sempre in scena. Ancor più sostanziosa, anche se meno omogenea, è la vocalità di Alessandra Gioia, che simpone nella breve ma fondamentale apparizione di Diana (e, per una sostituzione dellultimo momento, pure in quella di una delle due sacerdotesse). Meno probanti gli interpreti maschili. Nominalmente entrambi basse elevé, ossia baritono, Oreste e Toante sono, di fatto, ruoli acconci luno a un baritono acuto, laltro a un basse-barytone: affidarli a Liu Song-Hu (fremente ed espressivo, ma il dubbio che si tratti dun tenore trasformatosi in baritono a prezzo di molte artificiosità resta fortissimo) e a Costantino Finucci (voce calda ma pallida) dà luogo a un certo livellamento timbrico. A riequilibrare il baricentro delle vocalità virili, veleggiando su una tessitura a tratti acutissima, dovrebbe provvedere il personaggio di Pilade: ma gli acuti spesso schiacciati del tenore Marcello Nardis, peraltro corretto, non rendono giustizia al quadro.
Ramòn Tébar dirige con leleganza che si addice a Gluck e lestroversione fonica propria di Strauss (molto efficace la mobilità drammatica impressa ai recitativi), anche se si avverte come allOrchestra Internazionale dItalia un buon ensemble, ma non certo capace di sonorità stratosferiche unIphigénie classicamente settecentesca sarebbe più congeniale. Chi appare invece ben compenetrato in questIfigenia restaurata è il Coro Slovacco di Bratislava: sonoro, incisivo e del tutto a suo agio nel canto tedesco.
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