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Il tempo degli eroi

di Riccardo Lestini
  Il tempo degli eroi
Data di pubblicazione su web 30/06/2009  

Tu guarda come sono le mamme, che spolvera spolvera alle volte ti tiran fuori certi cimeli da spaccarti il cuore.

“Guarda un po’ qua”, dice la mia nella siesta distratta delle tre del pomeriggio d’un qualunque sabato di gennaio. “Guarda cos’ho trovato”, aggiunge. E mi sbatte in mano una foto ingiallita dal tempo e dai cassetti in rovina. Sorride pure, la madre, porgendo il reperto, speranzosa che la Polaroid rinvenuta possa principiare un qualche dialogo col figlio, cioè io, che vive lontano, che si fa sentir poco e vedere ancor meno, che quando torna non sa mai cosa raccontare.

Ma non principia un bel niente, perché il figlio, sempre io, soltanto strabuzza gli occhi e infarta un poco nel vedere l’istantanea vecchia più di vent’anni. Non principia proprio niente, che infarti e ricordi, il figlio, se li tiene ben stretti, solo per sé.

E tu pensa sta foto, estate 1986, sole che spacca e asfalto che brucia, polvere e terra dappertutto. Estate 1986, il tempo che Maradona metteva a sedere l’Inghilterra intera con una sbornia di dribbling, che Venditti cantava eravamo trentaquattro quelli della III E, tutti belli ed eleganti tranne me, che al Giro il podio era una tripletta tricolore Visentini-Saronni-Moser mai più rivista. Il tempo degli eroi, insomma. Che poi gli eroi eravamo noi, proprio noi, quattro pischelli di dieci anni o poco più abbracciati in questa benedetta fotografia, io, Ulisse, e gli altri tre disperati, Achille, Aiace e Filottete. Noi bimbi feroci di Ponte Rabbione, sputo qualsiasi di mondo tra lago e collina, noi sporchi e sudati, calzoncini corti e ginocchia sbucciate, noi da mattina a sera a zigzagare tra parcheggi e campetti sterrati dietro un pallone malconcio.




Della guerra di Troia, all’epoca, sapevamo poco o nulla. Certo sapevamo che la bella Elena era stata rapita e che un giorno, presto o tardi, saremmo dovuti andarcela a riprendere, azzuffandoci coi troiani nell’illusione di ritrovarla. Ma ignoravamo il mare, il sangue e le lacrime, i lunghi silenzi, le fughe vigliacche, gli amori inutili. Ignoravamo la crudeltà della vita.

Eppure era già tutto scritto, già allora, estate 1986, tempo degli eroi.

Era già scritto che la piccola Ifigenia sarebbe stata, un’alba fredda di novembre sul ciglio dell’autostrada, l’agnello sacrificale della nostra crescita, il nostro passepartout nell’oscurità del mondo adulto. Ed era già tutto scritto anche per noi, noi quattro pischelli della foto, noi eroi. Era scritto che io, Ulisse, mi sarei smarrito in un mare incomprensibile, e che girando girando non avrei trovato altro che la mia superbia. E la mia disperazione. Era già scritta la pazzia senza scampo di Aiace, la perenne solitudine di Filottete, ed era già scritto che Achille, povero amico mio, bello e giovane e invincibile e innamorato, di lì a pochi anni avrebbe sbattuto il suo tallone contro una maledetta macchina ubriaca.

Ma quello cristosanto era il tempo degli eroi, era l’estate 1986. C’era il sole e la guerra ci entusiasmava, santamadonna se ci entusiasmava. Così ogni mattina saltavamo giù dal letto prestissimo e con gli occhi affamati andavamo alla battaglia. Avevamo Pegasi senza ali da sferzare a colpi di pedale, strade da sbranare e nemici nuovi ogni giorno da battere a colpi di pallone. Aiace era il più alto di tutti, un perticone tale che scambiavano sempre per uno delle medie. E di testa, era imbattibile. Io, Ulisse, ero bravo sotto porta, un mago della mischia, un cecchino dell’ultimo metro. Non avevo la forza di Achille o la prestanza di Aiace, ma avevo l’intelligenza della posizione e l’opportunismo di sapere sempre quando sferrare il colpo finale. Filottete invece aveva sei polmoni, correva su e giù per il campo senza sosta, solo, stoico e impenetrabile. Una certezza granitica. E Achille…bè, Achille era genio puro. Dribbling, finte, controfinte, invenzioni improvvise e colpi impossibili che stendevano in un secondo centinaia di avversari.

Ci preparavamo così alla guerra di Troia, con partite epocali che iniziavano all’alba e finivano al tramonto. Non ne perdevamo una, eravamo invincibili, e se un giorno non trovavamo una squadra da battere giocavamo lo stesso, tra di noi, contro nemici immaginari da annichilire con la stessa ostinata determinazione.


Uno di quei pomeriggi senza avversari, stavamo provando tattiche e schemi, triangoli, contropiedi e passaggi di prima. In questi momenti, Filottete si sacrificava sempre e stava in porta, silenzioso e concentrato. Quel giorno era in gran forma, e nonostante le ciabatte con cui si era presentato al campetto, ribatteva ogni nostro tiro con riflessi felini e colpi di reni poderosi. A un certo punto Aiace cavalcò tutta la fascia a testa alta, crossò al centro dell’area, io feci un velo perfetto e Achille si esibì in una rovesciata spettacolare. Urlammo tutti e tre al gol, ma Filottete con un salto salì fino in cielo e smanacciò via la palla lontanissima dalla porta. Troppo lontana, proprio in mezzo al campo abbandonato pieno di sterpi ed erbacce. Con la solita calma imperturbabile, Filottete andò a riprendere il pallone. Dal campetto, vedevamo la sagoma di Filottete sparire lentamente tra l’erba alta e incolta. Riemerse poco dopo, stringendo la palla tra le mani.

“Dai, butta qua!”, gli urlò Achille smanioso di riprendere la partita.

Filottete ci lanciò la palla, per poi tornare verso di noi a passo lento. “Muoviti, cazzo, che ricominciamo!”, dissi io.

Poi, Filottete gridò. Noi, che avevamo già ricominciato a sgambettare per il campetto, ci fermammo di colpo. E quella che vidi pochi secondi dopo fu, letteralmente, la scena più raccapricciante di tutta la mia vita. Filottete sbucò fuori dall’erba alta contorcendosi come un indemoniato, scalciando furiosamente le gambe nel vuoto. Le ciabatte erano sparite, e attaccato al suo piede destro c’era un ratto nero, enorme, un gigantesco topo di fogna che gli affondava i denti sul pollice, mentre con le unghie gli si avvinghiava a morsa tutt’intorno. Urlammo anche noi, poi ci avvicinammo, senza avere la minima idea di cosa fare. Quell’estate, 1986, tempo degli eroi, avevamo vinto centotredici partite, sconfitto migliaia di avversari, ma non sapevamo assolutamente come battere uno schifoso rattone che stava divorando il nostro amico. Aiace provò a chinarsi per sradicare il topo dal piede a mani nude, ma Filottete lo fermò all’istante. “Fermo, state tutti fermi!”, disse Filottete tra le urla di dolore, “Non lo toccate, non mi toccate…è un topo di fogna, è infetto!”. E allora cosa cazzo facciamo? Ti facciamo morire qui dissanguato? Aiace ed io cominciammo allora a battere pedate per terra, a lanciare urla disperate all’indirizzo del topo, sperando che si spaventasse e mollasse la presa. Successe l’esatto contrario: più casino facevamo, più il topo si stringeva al piede di Filottete, che ormai, misto a sangue, buttava un pus giallognolo, orrendo e nauseante. 
 


Ci prese lo sconforto. Aiace, come sempre davanti alle sconfitte, reagì con violenza, prendendo a calci i pali della porta e lanciando bestemmie contro il cielo. Tanti anni dopo, definitivamente sconfitto da un mondo incapace di capirlo, avrebbe fatto lo stesso: una sera, d’estate, si sarebbe presentato al chiosco di Ponte Rabbione gremito di gente, e tra lo sguardo esterrefatto di tutti, senza un motivo apparente, con forza disumana avrebbe prima sollevato un cassonetto della spazzatura rovesciando tra i tavolini tutto il contenuto, e poi, con la stessa forza, avrebbe preso a calci un lampione, disintegrandolo e causando un black out generale. Il giorno dopo, infine, avrebbe deciso di non far più vedere la sua faccia a nessuno, iniziando a girare per Ponte Rabbione con la testa interamente fasciata da un asciugamano multicolore.

Ma quel giorno, estate 1986, tempo degli eroi, con noi c’era Achille. Fino a quel momento aveva osservato tutta la scena in silenzio. Ma quando ormai eravamo rassegnati a far morire il povero Filottete, d’improvviso parlò. “Aspettatemi qui!”, disse con il sole che gli scolpiva il volto stupendo.

Montò sulla sua bicicletta e partì a tutta velocità. Abitava lì vicino e tornò da noi in meno di un minuto. Aveva in mano un’enorme mazza da baseball e stampata in viso un’espressione sicura e già vittoriosa. Guardò Filottete dritto negli occhi, poi gli disse: “Adesso Filottete devi stare fermo, immobile. Mi raccomando: non ti devi muovere per nessun motivo, capito?”. Filottete fece sì con la testa, poi Achille si girò verso me e Aiace: “Voi, prendetelo e tenetelo fermo! E fate silenzio…silenzio assoluto!”. Io lo afferrai a destra, Aiace a sinistra.

Una volta immobilizzato Filottete, Achille sollevò la mazza da baseball in alto, inspirò profondamente, si riempì d’aria i polmoni e si concentrò chiudendo gli occhi. E quello, cristosanto e santamadonna, fu il momento: quello che hai davanti un’impresa impossibile, quello che è questione di vita o di morte, quello che tutto il mondo si ferma e ammutolisce, quello che si vive una volta sola nella vita, quello che hai una possibilità su un miliardo di riuscirci. Ma il momento è proprio quello che va in culo alla matematica, quello che ti dice che sì, porca troia, alle volte due più due fa veramente cinque, proprio quello in cui quella stronza di possibilità su un miliardo, cristosanto e santamadonna, si realizza. Il colpo poteva andare a vuoto, o peggio ancora poteva spaccare piede e gamba del povero Filottete. Invece, Achille piè veloce, che aveva percorso un chilometro in bicicletta in appena due minuti, che aveva la certezza della gloria e che traboccava forza da ogni dove, fece centro. Il colpo secco prese in pieno il topo senza sfiorare minimamente Filottete. Fu un tonfo sordo, il ratto colpito al fianco si staccò di colpo dal piede, rotolando a terra già moribondo. Filottete era salvo e poteva bastare così. Ma non per Achille, non quel giorno, non quell’anno, 1986, tempo degli eroi. Achille lanciò un’occhiata di sollievo all’amico salvato, ma dopo un attimo, furioso, fu di nuovo addosso al topo agonizzante e avviato verso una morte lenta e ingloriosa, colpendolo di nuovo con la mazza, poi un’altra volta, e un’altra ancora, sempre più feroce e violento. Pezzi e sangue di topo schizzarono ovunque, mescolandosi alla terra e alla polvere. E solo quando dell’animale non rimase alcuna traccia, Achille sollevò la mazza al cielo in segno di vittoria.



E davvero fu poco importante quello che accadde dopo, la corsa all’ospedale, le tredici punture antiveleno, il piede di Filottete che sarebbe rimasto mangiucchiato per sempre. Importante fu solo il momento, l’impresa irripetibile baciata dagli dei, il pelide e la sua ira funesta che la nostra Diva avrebbe cantato in eterno.

E la canta anche adesso, santamadonna, adesso che son passati vent’anni, che è tutto finito, che del tempo degli eroi resta solo sta fotografia ripescata chissà dove da mia mamma, sta foto che mi spacca il cuore e mi sbatte a terra e mi rimette in testa tutti i maledetti odori di quei giorni, le nostre gambe secche, maciullate di botte e zanzare, i nostri palloni sgonfi macchiati d’olio, i nostri assalti selvaggi alla vita. E ripenso ad Aiace, che non so più quant’è che non lo vedo, che cavalcava le fasce e colpiva di testa, che poi è impazzito e la testa se l’è fasciata perché aveva orrore di farsi vedere dalla gente, che poi è impazzito e non è più tornato, che non so più quant’è che non lo vedo e che non ho più il coraggio di vedere e di sentire, che adesso sta rinchiuso in una clinica fetente e d’estate lo portano un giorno al mare insieme agli altri matti. E ripenso a Filottete, che non ha più un piede normale da quel giorno, che non ha mai accettato un cazzo di compromesso, che aveva due lauree e un giorno è partito per i monti e adesso vive con le pecore, solo e in silenzio, che non ha nemmeno il telefono e col cazzo che si riesce a sapere qualcosa di lui. E ripenso ad Achille, povero amico mio, che già a dieci anni sapeva come sconfiggere i ratti maligni, che era il più coraggioso, che era indomito, che era invincibile ma sapeva, cristosanto se lo sapeva, che gli dei lo avrebbero richiamato troppo presto e che troppo breve sarebbe stata la sua vita, che un giorno, maledetta mattina di settembre, sarebbe finito tra le lamiere di una macchina impazzita e buonanotte agli eroi e buonanotte giovinezza. E che funerale, Achille, l’ultima volta che siamo stati tutti insieme, con Filottete che non diceva una parola e Aiace che stringeva forte al petto la tua maglietta e tutti che portavamo in spalla la tua bara. 



Perché si finisce così, noi eroi, noi pischelli di provincia, noi di Ponte Rabbione. Morti ammazzati, pazzi, disperati. Soli. Soli come me, Ulisse, che ancora smanio e non torno a casa, che ancora non mi lascio stare e vago da un porto all’altro. Che ancora sto qui, abbandonato in mezzo al mare.

E proprio da qui, dal mezzo di questo mare sterminato che da sempre mi travolge, che spero di avere, un giorno, il privilegio della vecchiaia, il privilegio di non avere più niente da chiedere o da distruggere. Il privilegio di ricordare un sacco di cose, tutte le delusioni, tutte le porcherie, tutte le mie bassezze, tutte le Circi fatali che mi avranno circuito, tutte le Calipso imploranti che avrò abbandonato, tutte le schifezze che la vita mi avrà regalato, tutte le cattiverie, le sconfitte e le tragedie che avrò dovuto sopportare. Il privilegio di ricordare tutti questi disastri e di tenermeli per me. Perché l’unica cosa che vorrò raccontare, vecchio e stanco, seduto su una panchina di un tranquillo parco di una Itaca qualsiasi, sarà l’eroe che sono stato quando correvo dietro un pallone e quando sconfiggevo, con i migliori amici che potessero capitarmi nella vita, terribili ratti assassini.

In quel parco, vedrò un bambino qualunque in calzoni corti e ginocchia sbucciate, lo avvicinerò e gli racconterò degli occhi di Achille, dei sei polmoni di Filottete, dei colpi di testa di Aiace e delle mie geniali furbizie sottoporta. Gli racconterò del momento che prima o poi arriva per tutti, e gli racconterò di campi sterrati e strade polverose di provincia. Gli unici luoghi dove gli dei non hanno vergogna di farsi vivi. 




 
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