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La tetra angoscia dei giorni felici

di Simone Gallinella
  Giorni felici
Data di pubblicazione su web 29/06/2009  

Una Winnie straripante di claustrofobica leggerezza. Giorni felici rappresenta uno dei momenti più significativi del teatro di Samuel Beckett. Metafora della miseria umana, dell’incapacità e impossibilità di comunicazione tra gli individui, tra il femminile e il maschile, racconta di Winnie e Willie, prototipo emblematico della coppia piccolo borghese che si avvicina all’età della vecchiaia. La coppia abita uno scenario apocalittico, un non luogo di solitudini, in cui una natura ormai morta costringe Winnie a vivere semisepolta. Seconda intensa incursione di Robert Wilson nel rinnovato Festival dei 2Mondi di Spoleto (lo scorso anno fu l’artefice dello spettacolo più suggestivo della kermesse con L’opera da tre soldi di Brecht) di cui ha curato regia, scene e progetto luci. Il suo lavoro si serve di diverse tecniche artistiche integrando magistralmente movimento, pittura, luce, design, scultura, musica e drammaturgia. I suoi spettacoli sono di un’altissima intensità estetica e di grande potenza evocativa. Eccezione non fa questo Giorni Felici, presentato in esclusiva nazionale al Teatro Caio Melisso.


 

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Una Winnie, antieroina beckettiana per eccellenza, incastonata per tutto il primo atto sino alla vita (nel secondo fino al collo), dentro un’eruzione d’asfalto, si fa imponente grazie al contrasto tra la massa scura della montagna-prigione, maestosa e immobile, e la magnifica architettura del piano luci che sorprendono a ogni respiro, suono (di penetrante realizzazione ad opera di Emre Sevindik), sussurro, interagendo con gli attori e costruendo una sequenza di infiniti quadri sensoriali grotteschi, ironici, comici, tragici. Suo marito Willie, invece, vive in una stretta caverna della stessa montagna in cui si può solo strisciare: i due sono apparentemente insieme, ma non riescono neanche a vedersi. All’interno di questa potente paralisi esistenziale e fisica, la staticità diventa azione. 

 
 

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Per tutto lo spettacolo arriva fortissimo il senso del movimento interiore e reale dei pensieri, della voce dei personaggi, della presenza di oggetti che diventano vere e proprie entità, presenze anch’esse dinamiche. Il senso del movimento è il risultato dato dall’intensa interpretazione e, citando Wilson,  dagli “enormi occhi che sono sempre in ascolto” di Adriana Asti, dalla qualità e dalla maestria nell’esecuzione di una scelta gestuale estremamente puntuale e dall’incredibile modulazione vocale. I lunghi silenzi, con cui l’attrice farà da contraltare alla sua interpretazione, saranno l’arma ossessionante grazie alla quale potrà scrutare, interrogare e smascherare la platea. Il trucco poi, illuminato da una luce abbagliante, amplificherà i volti, rendendoli delle vere e proprie maschere grottesche. Tutto il resto è scuro, è nero, è maledetto. Winnie, però, continua ad affermare che il suo è un giorno felice, mentre il pubblico percepisce una densa angoscia che pervade tutto il testo, sottile e penetrante come la riga di sangue vermiglio disegnata al centro del cranio vuoto e sfondato di Willie (Yann de Graval).

Infine, forse al termine dell’ultimo giorno, non sorprende che Winnie finalmente riesca a cantare la loro melodia preferita, lo struggente motivo de La vedova allegra di Franz Lehar, quasi ad innescare il vento del tempo che soffia potente sul quel drappo bianco, con cui Wilson apre i due atti di questo Giorni felici.




Giorni Felici
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