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Shoe repair

di Roberto Fedi
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Data di pubblicazione su web 18/06/2009  

Il  piccolo  tubo del neon scende di sbieco,  e si  appoggia alla veranda gessata. Parte bene, con una S che si protende quasi sul  marciapiede;  ma poi si spezza in lettere più  anonime,  per finire  in  una  r  minuscola appena  accennata.  Il  supporto  di metallo nero si è  piegato, e così la scritta si inclina verso  la fine  della  strada, nella periferia dei pali scuri  della  luce, verso Pico e Sepulveda,  Los Angeles.
Lui  sa  che è sera dalla gente che  lo  circonda.  Ora, arriveranno  presenze prima solo indovinate – dietro un  portone, lungo  un  marciapiede,  dentro una lavanderia.  Appena  il  sole diventerà  più grande e rosso all'orizzonte ‘quelli’  inizieranno la   loro  giornata,   silenziosi  e  quasi  strisciando,   e  lo guarderanno,   le  mani gialle dentro i jeans con lo  spago,   le scarpe  senza stringhe.  Vede cambiare i colori,  tutti verso  il grigio e il perlaceo.  ‘Quelli’  srotolano giornali avvizziti sui marciapiedi e si preparano a prendersi la notte. Come Romero, e i morti viventi. Altro che retrospettiva di Fellini, il giorno dopo a Ucla.
La scritta al neon  è violacea,  e frigge.  Sul vetro  bianco della  porta  una  freccia  di scotch  verde punta  verso  la  maniglia rotonda;  sopra,  all'altezza degli occhi di chi sta per entrare, hanno scritto HEELS con un pennello celeste.  Non c'è altro, ma sul  vetro,  dalla parte di dentro,  una tendina a pieghe  lascia passare il chiarore. È  aperto, open.

Los Angeles



Dentro,   è come  se ci  fosse  già  stato.  Interni sepolti,  attrezzi da artigiano accanto a macchinette  elettriche di seconda mano, spigolose; polvere; calendari; scaffali  storti.  Immigrati. L'uomo che prende le scarpe e le appoggia al tavolo  è basso e ricciuto, e non parla; dietro la mezza porta, lui  si siede  su  una  poltroncina, davanti a uno  sgabello  di  vimini. Aspetta.  Spera che tutto finisca presto. Una  volta, a Downtown, il sole calò senza  che  se  ne accorgesse,  e  lui si trovò a un tratto in  mezzo  agli  uomini marroni  dai  capelli unti, messicani e chicanos – lui  bianco  e quasi  biondo.  Lo  guardavano  senza odio,  come  si  guarda  un intruso: anche allora, si sentì sgomento.
   –  Where are you from? Italy? –. Sempre così: questa volta, più che l'accento, sarà stata l'etichetta all'interno.
   – Ya.
L'uomo basso non alza la testa, e stacca lentamente il tacco nero.  Forse sta pensando se il papa sta a Roma o a Venezia, e se il  Colosseo è a Firenze. Dietro c'è un poster, chissà  di quando  e  di chi, con un'immagine di mare.  Lui  la  guarda, proprio per non sapere che fare.     
   – Do you like the sea? – evidentemente l'uomo ha capito che stava  guardando  il  poster:  come  abbia  fatto,  poi.  Lui risponde  di sì, che il mare è una delle cose più suggestive  che ci  siano  (ha detto proprio così, suggestive, e non  sa  neanche come gli è venuto. Dev’essere anche sbagliato. È ' che proprio non sa che dire, mentre l'altro tira  su  un chiodo da un tacco consumato). 
    – Is there  the  sea, near your town? – l'uomo basso lascia la pinza, e allora  lui lo  guarda.  Ha un maglione senza camicia, e pantaloni  grigi;  i capelli  ricci  ricoperti di polvere sottile, e la pelle  un  po' scura. 
   - Are you from Italy too?  – gli  è venuto senza pensarci,  e mentre  lo  sta  dicendo spera di no,  perché non  ha  voglia  di discussioni sulla pizza di Avellino, o sul formaggio abruzzese.
   –  No,  sir: Armenia – ha alzato la testa, e ha  sorriso  un poco. – Armenia,  you know?  – Il sorriso rimane leggero sulla faccia, le mani continuano il lavoro sul tacco, lente e come prima. Quelle non sorridono, pensa. – I love the sea. Is there the sea, near your town? –
   –  Ya,  mare Tirreno, Tirreno Sea –  chissà perché l'ha detto. Il  mare non è vicino a casa sua.  Ma  da  laggiù,  le distanze  di  casa sembrano diverse. E poi, gli è sembrato  che l'altro se l'aspettasse, ripetendo la domanda. –   Is there the sea in  your country too? – :  l’ha detto così, perché a questi dialoghi da poche lire c’è abituato, una volta può essere il sole, un’altra il cibo, o il soccer. Questa volta è toccato al mare, e  adesso sta mentalmente  cercando  nella memoria dove collocare l'Armenia.

Dio, speriamo che faccia presto. Che ne so io dell’Armenia, del mare dell’Armenia. Che mi interessa di questo qui, che sarà arrivato chissà quando, chissà come, chissà perché. E magari mi sta anche rovinando un bel paio di scarpe. Chissà cosa starà accadendo fuori, a quest’ora. Lui è lì da qualche minuto, e vorrebbe già andare via, senza aspettare le scarpe con il tacco rimesso, senza parlare con quell’uomo basso e mite, senza essere costretto a ripensare a quello che ha lasciato, a quello che gli sembra di avere già perduto.
Intorno, il negozietto è silenzioso, si sente solo il ronzio della macchina per modellare il tacco nuovo. La polvere sottile che ne esce si ferma sulle mani, sulle ginocchia, sui vestiti dell’uomo, come se fosse sua e gli appartenesse. Se ne alza solo un poco, e riverbera il chiarore della stanza, il pallore che viene dai vetri. È assurdo stare lì, seduto su una poltroncina stantìa, in quella polvere fine, in quell’odore di chiuso e di povero, come quando era bambino e andava in cantina solo per la gioia di uscire a corsa, su per le scale, e aprire la porta e farsi accecare dal sole.




L’uomo è chino sulla scarpa, che non è più lucida. Lui alza gli occhi da sopra il banchetto, così per sbirciare cosa diavolo dovrà infilarsi dopo, quando esce e ha appuntamento al ristorante. Magari un tacco marrone su una scarpa nera. Si chiede chi gliel’ha fatto fare di entrare lì dentro, in quel chiuso, in quella miseria. Sempre così. Fo le cose e poi me ne pento. Ben gli sta. Ma  intanto ha voglia di saltare di là, strappargli la scarpa Made-in-Italy, leggera, morbida, mica come quelle di plastica che quel coglione ripara tutti i giorni accidenti.
   –   Do you like the sea, here in Las Angiòles? –. Ha detto proprio così. Las Angiòles. Cristo, ma come si fa? Questo starà qui da quarant’anni, e ancora non sa come si pronuncia la città dove sta di casa. 
    – What about my shoes? –. Almeno si cambia discorso. E poi a lui del mare ora non gliene frega nulla, veramente, e sta lì a guardarsi le calze fini, dove tra poco si incastreranno due scarpe che un quarto d’ora prima erano belle (comprate a Firenze, mica in Armenia perdìo), e ora chissà.
   – So beautiful. Never seen shoes like these –. Ecco, lo sapevo. Lui si allunga più che può sul collo, ma l’uomo lavora basso, su un banchetto che si indovina di legno, dai colpi che ci tira sopra. Con la coda dell’occhio vede di nuovo il poster, polveroso. Accidenti al mare, e a chi gli piace.

A lui piace un mare, il mare. Beh, detta così fa anche un po’ ridere. Come a me piace un monte, la montagna. A me piace un lago, il lago. No, non è la stessa cosa. Che senso dell’umorismo di merda, Madonna. È proprio vero che l’ambiente è tutto. E con quel nano ricoperto di polvere, c’è poco da ridere. Chissà se c’è qui vicino un altro Shoe repair. Magari in un Mall di lusso. Entro e me li rifaccio attaccare, un paio neri e lucidi, belli. Questi li butto nel  mare, così galleggiano. Fino in Armenia.




Fuori si indovina il buio, più o meno. Ora gli tocca chiamare un taxi, farsi capire dal driver che chissà da dove viene e quando è arrivato (una settimana fa, magari), spiegargli la strada, zoppicare (sicuro come la morte) fino al ristorante che quello del taxi di certo non conosce e lo lascia mezzo chilometro prima, scusarsi con i colleghi e la collega carina, nascondere le scarpe sotto il tavolo – speriamo che non sia all’aperto, anzi lo sarà come vederlo con la fortuna di stasera – scherzare sui tacchi spaiati. Di sicuro. Questo qui non finisce neanche se gli tiro un martello. Sono quasi le sette e mezzo. Il solito italiano che arriva in ritardo. Risolini. Fine della simpatia della collega bella. Porca miseria e accidenti all’Armenia. 
    – Are you ready, please? I’m really in a hurry, sorry –.
   – Just a moment, sir –. Speriamo. – So, tell me something about the sea, the sea near your town. Is it great? –. 
Great. Ma  che cavolo. 
   – No. Tirreno sea. It’s calm. It’s a little, pretty blue calm sea. I love it. There’re some cute little towns, near the shore. Viareggio. Forte dei Marmi. Also Pisa. Do you know Pisa? La Torre? Torre che pende, Leaning Tower. You know? –

Beh, chissà perché gli è uscito. Bisogna pur dire qualcosa, mica posso stare mezz’ora a guardarmi le calze e a girare i pollici. O gli alluci. O chissà come si chiamano in inglese o in armeno. O chissà come si dice Torre pendente – i suoi amici dicono tutti così, mica si traduce Piazza san Pietro, o Castello Sforzesco.




Si ricorda quando è andato l’ultima volta sulla Torre, con suo figlio piccolo. Si ricorda dove hanno fermato la macchina, in divieto di sosta. Multa. Chi se ne frega. Era tutta la mattina con suo figlio. La paura a guardare di sotto, dalla parte che pende. Lui gli si aggrappava al collo, stretto. Bello. Proprio bello. Poi il ristorante, anzi la pizza. La pizza a Pisa, diceva lui. E rideva. Hanno anche mandato una cartolina, e lui gli teneva la mano perché scrivesse il nome, agli amici all’asilo. E alla mamma? Dopo, dai, ora finisci che si fredda, Poi gli è dispiaciuto di avergli detto di no. Che stupido. Magari lui se ne ricorda per tutta la vita. Ora che esco gli mando una cartolina, magari col mare. Ci scrivo anche di salutare la mamma, tanto ora sa leggere. Tanto ora magari le cartoline  non le legge neanche più..
   – … about your sea, sir? –. Che ha detto? – Sorry, I didn’t understand –. Gli è venuto anche di schiarirsi la voce. 
    – Do you often think to the sea near your town, sir? – si corregge l’altro. O forse era giusto prima.
    – Ya. I love my sea. I miss it –. Gli è venuta così. Si pente subito. Sarà stato il ronzio del macinino di quel pover’uomo. In realtà a lui il mare non è mai mancato. Non sa che farsene del mare. Non sa neanche nuotare.
    – You’ re right. I can undestand, sir. I miss my sea too –.

È inevitabile. – Is it a good sea, your sea? –. Che gli deve dire? Magari gli fa piacere. È un emigrato. Pazienza. Quelli aspetteranno. Mica può arrivare con un tacco solo.
   – Oh. – L’uomo alza la testa impolverata e sorride. Ha denti regolari e bianchi, un sorriso un po’ mesto. – Oh, yes. So tender –.
Ha detto tender o there, here? – So  you like the Ocean here, too –, azzarda.
L’uomo si ferma, col martello in mano. Lo guarda con due occhi scuri e quasi lucidi. Sembra spaventato.
Chissà che gli ho detto, pensa lui. Mai parlato con un armeno. – Sorry –. Non si sa mai.
    – Oh no, sir. I hate the Ocean. You don’t know. There are awful fishes inside. Terrible. They can kill you. –
E si avvicina. E ha in mano due scarpe, lucide, belle, morbide. Di Firenze, Made-in-Italy. Lui le prende, come un’offerta. Le guarda. I tacchi sono nuovi, lucidi, perfetti. Dio, che scemo. L’uomo sorride, di là dal banchetto. – Try it, please –.
Entrano come guanti. Non scricchiolano neppure. 
    – Thank you , really –. Non sa dire altro. – How much is it? – 
   – You’re welcome. Nothing at all. It’s a pleasure for me to repair such a wonderful shoes. It’s a gift, from Armenia. I hope you can go back home, sir. Soon. Go there. Say hallo for me to your tender Tirreno sea. Please. –

Lui esce, e non dice nulla. Non prende neanche il taxi. Aspetteranno, tanto gli italiani sono sempre in ritardo, anche con le scarpe morbide. È buio,  le forme confuse degli zombi sono già in strada, hanno srotolato i loro giornali vecchi, hanno fissato in terra i carrelli del supermercato con le buste di plastica gonfie. Qualcuno si lamenta.
Devo andare in albergo. Internet. Ecco. Google. Armenia.
È piccola, laggiù nell’Est. È anche verde, sembra. Ci sono montagne, città. Guardare meglio. Non c’è il mare. Neanche l’ombra. Neanche un flutto,  neanche un pochino di blu. Niente.

Si mette le mani sul viso, e piange.





 
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