Al Teatro San Carlo di Napoli, per il Napoli Teatro Festival Italia, è andato in scena il concerto dellorchestra sinfonica del teatro e, a seguire, il libero adattamento de il Pigmalione di Jean-Jacques Rousseu ad opera di Manlio Santanelli, con la regia e linterpretazione di Vincenzo Salemme.
Ad aprire la serata un raffinato concerto diretto dal maestro Giampaolo Bisanti su musiche di Luigi Boccherini con il concerto in Si bemolle maggiore per violoncello e orchestra (elaborazione di Friederich Grutzmachen), con la Sinfonia n.101 della pendola (o dellorologio) in Re maggiore di Franz Joseph Hadyn; con Il flauto magico, overture K.620 di Wolfgang Amadeus Mozart. Al violoncello Luca Signorini.
Accompagnato dallorchestra sinfonica, Vincenzo Salemme ha debuttato nel teatro partenopeo per eccellenza dando prova delle sue qualità attoriali, strizzando locchio allalta scuola eduardiana.
La leggenda narra che Pigmalione, re di Cipro, appassionato scultore, sinnamora perdutamente di una sua creazione marmorea, leffige di una giovane cui ha dato il nome di Galatea. Il re chiede ad Afrodite il dono di farla vivere per sposarla. La dea esaudisce la richiesta di Pigmalione. I due si sposano e danno alla luce un bambino di nome Pafo che costruirà un tempio in onore di Afrodite a Cipro.
Lopera breve di Rousseau nasce dal dibattito illuminista intorno alla natura della musica e del suo rapporto con la parola: lautore, sostenendo linadeguatezza della lingua francese al canto, inventa una forma ibrida che giustappone pagine strumentali e recitazione. Le prime sono accompagnate da una pantomima, la parola viene declamata quando la musica sinterrompe. Nella versione di Rousseau, la natura prevale sullarte. Galatea, la statua creata da Pigmalione, offende la natura per la propria bellezza inarrivabile e per questoffesa la natura stessa la punisce trasformandola in essere umano.
Santanelli – ricordandosi del libretto che aveva tratto Simeone Antonio Sografi per la musica di Gian Battista Cimador, rappresentata il 26 gennaio 1790 al San Samuele di Venezia – produce un testo che si contraddistingue per lironia tagliente, per un linguaggio ricercato e per un insolito finale che come afferma lo stesso drammaturgo partenopeo ‹‹accende una luce di speranza nei brutti…i quali dora in poi non si dovrebbero sentire discriminati soltanto perché non posseggono i tratti ideali per un calendario››.
Sulla scena si vedono: sulla sinistra, linterno della bottega di Pigmalione con tre sculture scoperte ed una nascosta da un velo, un tavolo con qualche sedia, uno scalpello e un martello; sulla destra, lorchestra sinfonica. Pigmalione (Vincenzo Salemme) si interroga sulla sua inadeguatezza nei confronti dellarte e della bellezza, crede di aver esaurito la sua vena artistica, è tormentato a tal punto da nascondere sotto un velo la sua ultima creazione – una figura di donna che ha chiamato Galatea – per evitare di giudicarla e rintracciare in lei forme di imperfezione. Chiede aiuto al suo fedele e gobbo Cinabro (Antonio Guerriero), quasi come se parlasse con una coscienza altra da sé. Quando decide di svelare Galatea (Adele Vitale) – rimasta immobile fino a quel momento – sinnamora di lei. Il tormento damore, linsonnia, lansia e lirrequietezza di Pigmalione sono qui accompagnate dalle note dellorchestra che segue laffanno dellattore in sincrono perfetto, quasi a sottolinearne lo spasmo. Il gioco musicale si alterna con citazioni dei più celebri melodrammi («Le belle forme che discioglievi dai veli», «Casta Diva», «Celeste Aida») e con canzoni di estrazioni popolare («‘O guappo ‘nnamumrato», «Bella senzanima»). Ecco che Galatea prende vita, balbetta qualche parola, si alza e cammina nella bottega del suo creatore, e quando Pigmalione spalanca le braccia per accoglierla, lei sceglie il gobbo e deforme Cinabro, davanti allincredulità dello scultore. Pigmalione allora pensa che lunica via duscita è il suicidio. Paradossalmente lo stesso Cinabro gli porgerà lo scalpello – tra le risate del pubblico – e Pigmalione preso dallo sconforto compierà latto finale.
Ladattamento santanelliano offre una rilettura ironica e imprevedibile del mito attualizzando il dibattito sulla chirurgia estetica dei giorni nostri, schierandosi non dalla parte di chi utilizza silicone e bisturi ma dalla parte di quelli che sono contenti di rimanere così come la natura li ha fatti: non belli…ma felici!
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