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Tra quattro pareti (ma senza entrare)

di Paolo Patrizi
  Una scena dello spettacolo-Foto Mario del Curto
Data di pubblicazione su web 12/12/2008  

Il rumore di un’aspirapolvere arriva liberatorio dopo una manciata di minuti in assoluto silenzio. Fino ad allora, quattro maturi signori – cappotto e borsalino neri, completo grigio ferro, camicia bianca, cravatta scura – non hanno fatto altro che imballare, con aplomb muto e contegnosissimo,  gli oggetti di un appartamento dal quale, si direbbe, stanno traslocando. Ma pure quando l’elettrodomestico cessa di far sentire la sua voce non viene concesso, ancora per qualche interminabile minuto, d’ascoltare altri suoni, mentre l’enigmatico quartetto – terminata la pulizia del pavimento – con implacabile logica dell’assurdo disimballa quanto fino ad allora impacchettato, ripetendo come in un filmato che scorre all’indietro i medesimi gesti di prima. E pensare che quelle quattro voci che continuano a negarsi agli spettatori appartengono all’Hilliard Ensemble: probabilmente il più illustre gruppo vocalistico oggi operante nella musica antica, ma sempre più spesso attratto dal repertorio contemporaneo. 

Una scena dello spettacolo-Foto di Mario del Curto
Una scena dello spettacolo-Foto di Mario del Curto
 

I went to the house but did not enter mette a dura prova la concentrazione di un pubblico piuttosto scarso, e che ha visto numerose fughe di spettatori durante la “prima”: il più triste degli esiti che possa darsi a teatro. Certo, da un compositore come Heiner Goebbels nessuno poteva aspettarsi qualcosa anche lontanamente imparentabile con l’opera lirica tradizionale: ma il sottotitolo esplicativo – “concerto scenico in tre quadri” – autorizzava a credere di trovarsi davanti a un oggetto che, per quanto misterioso, rispondesse a un generico canone di “teatro musicale”. Tuttavia, se è comprensibile lo spiazzamento (e l’eventuale rigetto) di fronte a un lavoro dove la grande assente sembrerebbe proprio la musica, chi si è lasciato catturare da questa drammaturgia lentissima e, di primo acchito, afasica è stato almeno in qualche misura ripagato. Se non altro perché le qualità intrinseche dello spettacolo ammortizzano l’eventuale delusione per la composizione in sé.

Innanzi tutto va resa lode al Teatro Comunale di Bolzano – un palcoscenico che sta trovando la propria fisionomia nel proporre in “prima” italiana prestigiose produzioni internazionali – per l’importanza culturale dell’avvenimento: questo spettacolo ha costituito un “caso” all’ultimo Festival di Edimburgo, e averlo coprodotto conferma la lungimiranza dello Stadttheater altoatesino. Goebbels, d’altronde, è un musicista ormai assurto quasi allo status di “classico”: ma non si creda al consueto lavoro destinato a una élite già catechizzata, pronta a deliziarsi – come può avvenire con le pièce della Societas Raffaello Sanzio, o i film di Nanni Moretti – per qualunque prodotto del proprio beniamino. Al contrario, I went to the house but did not enter rischia di deludere in primo luogo proprio gli ammiratori di Goebbels, che non potranno ritrovarvi quell’inesauribile e ludica inventiva strumentale che caratterizza molti dei suoi spettacoli precedenti. E questo non per un calo d’ispirazione, ma per una ragione assai più semplice: in una sorta di sfida con se stesso il musicista ha rinunciato agli strumenti, limitandosi a comporre per l’Hilliard Ensemble dei canti rigorosamente “a cappella”. È il solo gioco dei loro intrecci polifonici – sia quando i quattro vocalists cantano sia quando recitano – a delineare l’ordito musicale, tanto elaborato nell’intreccio ritmico quanto semplice nell’andamento melodico, mentre rumori di varia natura (allarmi di sirene, svuotamenti di bidoni della spazzatura, la citata aspirapolvere…) completano l’organico dell’anomala partitura.

Come di consueto, Goebbels realizza anche drammaturgia e regia del proprio lavoro, caratterizzato dallo scompaginamento delle unità di tempo e azione, ma nel pieno rispetto di quella di luogo: ovviamente la casa cui fa riferimento il titolo, destinata ad assumere profili diversi nei tre tableaux (prima l’appartamento del trasloco, poi un condominio di cui scorgiamo più interni, infine una stanza d’albergo), ma sempre appartenente al medesimo “altrove” metafisico circoscritto da quattro pareti. A fare da contrappunto, altrettante poesie – tutte o scritte in inglese o tradotte per l’occasione in tale lingua – sintomatiche della frammentazione di quell’Io novecentesco che, ormai, è già storia di ieri: Eliot nel primo quadro, Maurice Blanchot nel secondo e Beckett nell’ultimo, con un fulmineo Kafka chiamato a fare da siparietto tra l’episodio intermedio e quello conclusivo.

Una scena dello spettacolo-Foto di Mario del Curto
Una scena dello spettacolo-Foto di Mario del Curto


Sono versi destinati talvolta alla mera recitazione, più spesso messi in musica – ma come in punta di piedi – da Goebbels; ed è proprio la trasformazione dei testi in “poesia cantata”, con i suoi tempi naturalmente diversi da quelli della lettura, a non rendere sempre agevole la ricezione del pensiero poetico. È un limite che si avverte soprattutto in Blanchot (cui si deve il verso utilizzato come titolo) e in Beckett (dove, al contrario dei quadri precedenti, la regia nega l’ausilio dei sopratitoli, ribadendo così per l’autore di Aspettando Godot la natura di artista dell’incomunicabilità): ma I went to the house but did not enter non è uno di quegli spettacoli in cui ogni cosa debba esser chiara. Contano più le sollecitazioni sottopelle, il fascino per una costruzione all’insegna del non-accadimento (a cominciare dal titolo: una casa in cui non si entra) e l’eleganza dell’impaginazione visiva, soprattutto nel pannello centrale del trittico, dove l’assurdo e l’angoscia di Blanchot vengono tradotti scenograficamente da un condominio all’americana che sembra uscito da un quadro di Hopper, con le sue luci fredde ed estranianti.

Contribuisce a chiudere in attivo la serata la bravura del quartetto vocale (il controtenore David James, i tenori Rogers Covey-Crump e Steven Harrold, il baritono Gordon Jones): di diabolica perfezione nel governare al millimetro i propri intrecci polifonici, e capace di una recitazione tanto algida quanto pregnante. Si esce di teatro più inquieti che soddisfatti, ma non è un difetto. Può turbare che pure Goebbels – con i lunghi silenzi che contrappuntano lo spettacolo, e la rinuncia alle “voci” degli strumenti – si arrenda all’afasia del nuovo millennio. Ma forse un modo per combatterlo è proprio questo bilinguismo musica/poesia, che non a caso trova epilogo in un autore bilingue – irlandese, ma francofono – come Beckett.







I went to the house but did not enter
di H. Goebbels Recensione di Paolo Patrizi
Concerto scenico in tre quadri


cast cast & credits

Una scena dello spettacolo-Foto Mario del Curto
Una scena dello spettacolo-Foto Mario del Curto




 
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