Il rumore di unaspirapolvere arriva liberatorio dopo una manciata di minuti in assoluto silenzio. Fino ad allora, quattro maturi signori cappotto e borsalino neri, completo grigio ferro, camicia bianca, cravatta scura non hanno fatto altro che imballare, con aplomb muto e contegnosissimo, gli oggetti di un appartamento dal quale, si direbbe, stanno traslocando. Ma pure quando lelettrodomestico cessa di far sentire la sua voce non viene concesso, ancora per qualche interminabile minuto, dascoltare altri suoni, mentre lenigmatico quartetto terminata la pulizia del pavimento con implacabile logica dellassurdo disimballa quanto fino ad allora impacchettato, ripetendo come in un filmato che scorre allindietro i medesimi gesti di prima. E pensare che quelle quattro voci che continuano a negarsi agli spettatori appartengono allHilliard Ensemble: probabilmente il più illustre gruppo vocalistico oggi operante nella musica antica, ma sempre più spesso attratto dal repertorio contemporaneo.
Una scena dello spettacolo-Foto di Mario del Curto
I went to the house but did not enter mette a dura prova la concentrazione di un pubblico piuttosto scarso, e che ha visto numerose fughe di spettatori durante la “prima”: il più triste degli esiti che possa darsi a teatro. Certo, da un compositore come Heiner Goebbels nessuno poteva aspettarsi qualcosa anche lontanamente imparentabile con lopera lirica tradizionale: ma il sottotitolo esplicativo “concerto scenico in tre quadri” autorizzava a credere di trovarsi davanti a un oggetto che, per quanto misterioso, rispondesse a un generico canone di “teatro musicale”. Tuttavia, se è comprensibile lo spiazzamento (e leventuale rigetto) di fronte a un lavoro dove la grande assente sembrerebbe proprio la musica, chi si è lasciato catturare da questa drammaturgia lentissima e, di primo acchito, afasica è stato almeno in qualche misura ripagato. Se non altro perché le qualità intrinseche dello spettacolo ammortizzano leventuale delusione per la composizione in sé.
Innanzi tutto va resa lode al Teatro Comunale di Bolzano un palcoscenico che sta trovando la propria fisionomia nel proporre in “prima” italiana prestigiose produzioni internazionali per limportanza culturale dellavvenimento: questo spettacolo ha costituito un “caso” allultimo Festival di Edimburgo, e averlo coprodotto conferma la lungimiranza dello Stadttheater altoatesino. Goebbels, daltronde, è un musicista ormai assurto quasi allo status di “classico”: ma non si creda al consueto lavoro destinato a una élite già catechizzata, pronta a deliziarsi come può avvenire con le pièce della Societas Raffaello Sanzio, o i film di Nanni Moretti per qualunque prodotto del proprio beniamino. Al contrario, I went to the house but did not enter rischia di deludere in primo luogo proprio gli ammiratori di Goebbels, che non potranno ritrovarvi quellinesauribile e ludica inventiva strumentale che caratterizza molti dei suoi spettacoli precedenti. E questo non per un calo dispirazione, ma per una ragione assai più semplice: in una sorta di sfida con se stesso il musicista ha rinunciato agli strumenti, limitandosi a comporre per lHilliard Ensemble dei canti rigorosamente “a cappella”. È il solo gioco dei loro intrecci polifonici sia quando i quattro vocalists cantano sia quando recitano a delineare lordito musicale, tanto elaborato nellintreccio ritmico quanto semplice nellandamento melodico, mentre rumori di varia natura (allarmi di sirene, svuotamenti di bidoni della spazzatura, la citata aspirapolvere
) completano lorganico dellanomala partitura.
Come di consueto, Goebbels realizza anche drammaturgia e regia del proprio lavoro, caratterizzato dallo scompaginamento delle unità di tempo e azione, ma nel pieno rispetto di quella di luogo: ovviamente la casa cui fa riferimento il titolo, destinata ad assumere profili diversi nei tre tableaux (prima lappartamento del trasloco, poi un condominio di cui scorgiamo più interni, infine una stanza dalbergo), ma sempre appartenente al medesimo “altrove” metafisico circoscritto da quattro pareti. A fare da contrappunto, altrettante poesie tutte o scritte in inglese o tradotte per loccasione in tale lingua sintomatiche della frammentazione di quellIo novecentesco che, ormai, è già storia di ieri: Eliot nel primo quadro, Maurice Blanchot nel secondo e Beckett nellultimo, con un fulmineo Kafka chiamato a fare da siparietto tra lepisodio intermedio e quello conclusivo.
Una scena dello spettacolo-Foto di Mario del Curto
Sono versi destinati talvolta alla mera recitazione, più spesso messi in musica ma come in punta di piedi da Goebbels; ed è proprio la trasformazione dei testi in “poesia cantata”, con i suoi tempi naturalmente diversi da quelli della lettura, a non rendere sempre agevole la ricezione del pensiero poetico. È un limite che si avverte soprattutto in Blanchot (cui si deve il verso utilizzato come titolo) e in Beckett (dove, al contrario dei quadri precedenti, la regia nega lausilio dei sopratitoli, ribadendo così per lautore di Aspettando Godot la natura di artista dellincomunicabilità): ma I went to the house but did not enter non è uno di quegli spettacoli in cui ogni cosa debba esser chiara. Contano più le sollecitazioni sottopelle, il fascino per una costruzione allinsegna del non-accadimento (a cominciare dal titolo: una casa in cui non si entra) e leleganza dellimpaginazione visiva, soprattutto nel pannello centrale del trittico, dove lassurdo e langoscia di Blanchot vengono tradotti scenograficamente da un condominio allamericana che sembra uscito da un quadro di Hopper, con le sue luci fredde ed estranianti.
Contribuisce a chiudere in attivo la serata la bravura del quartetto vocale (il controtenore David James, i tenori Rogers Covey-Crump e Steven Harrold, il baritono Gordon Jones): di diabolica perfezione nel governare al millimetro i propri intrecci polifonici, e capace di una recitazione tanto algida quanto pregnante. Si esce di teatro più inquieti che soddisfatti, ma non è un difetto. Può turbare che pure Goebbels con i lunghi silenzi che contrappuntano lo spettacolo, e la rinuncia alle “voci” degli strumenti si arrenda allafasia del nuovo millennio. Ma forse un modo per combatterlo è proprio questo bilinguismo musica/poesia, che non a caso trova epilogo in un autore bilingue irlandese, ma francofono come Beckett.
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