Diceva Berlioz che il direttore dorchestra è il più pericoloso degli interpreti musicali, poiché il cantante può rovinare solo la sua parte, ma il direttore può rovinare tutto. Sono parole che tornano in mente assistendo a un Macbeth verdiano sulla carta molto interessante messo in scena a Pisa: ultimo tassello di una coproduzione già vista a Como, Trento, Rovigo e altre fertili piazze della provincia italiana, ma con il plusvalore, rispetto ai palcoscenici precedenti, duna coppia di protagonisti (Vittorio Vitelli e Dimitra Theodossiou) che farebbe onore a qualunque grande teatro. Purtroppo Giampaolo Bisanti chiamato a dirigere un complesso, la Filarmonica Veneta “Malipiero”, che con altre bacchette parve apprezzabile qui fa danno sia per sé (lorchestra) sia per gli altri (i cantanti). Che nei teatri “minori”, costretti a pochissime prove e spesso privi di masse stabili, linteresse debba concentrarsi sulle voci è pacifico. Ma cè un livello minimo di rendimento dellorchestra e del coro al di sotto del quale, per risollevare le sorti dello spettacolo, non cè grande individualità vocale che tenga. A Pisa spiace dirlo almeno la sera della “prima” i risultati sembravano spingersi oltre quel crinale.
Dimitra Theodossiou è lady Macbeth
Chiamato a dirigere un numero di orchestrali forse un po sguarnito in rapporto alla partitura (ma con tanti e tali problemi di coordinamento una riduzione dei leggii può essere un vantaggio), Bisanti non riesce a trasmettere alcuna delle straordinarie ricchezze strumentali del Macbeth: né quella ritmico-timbrica (il brindisi suona piatto e quasi organettistico), né quella agogica (literazione della cellula melodica “a ondate” che puntella La luce langue si trasforma in monotonia esasperante) né quella dinamica (sono pochi i direttori che hanno saputo rendere il senso di quel “pianissimo” indicato da Verdi addirittura con cinque “p” nel tema del sonnambulismo, ma qualcosa di meglio, forse, si poteva tentare). Questo per quanto riguarda il Bisanti concertatore. Più incresciosi, però, sono i difetti dellaccompagnatore, lacunoso negli attacchi (lottimo Vitelli, nel primo atto, sbaglia clamorosamente unentrata) e annaspante nel gestire il monumentale concertato del Finale primo, anche per via di un coro molto discontinuo.
In tale contesto, né Vitelli né la Theodossiou potevano essere valorizzati: e se la seconda più scaltra e più animale da palcoscenico è riuscita comunque a imporsi, il primo è apparso rigido e deconcentrato. Per il resto, la sua rimane una vocalità baritonale notevolissima (da sorvegliare però nellintonazione, crescente nel canto scoperto del Finale primo), e il fatto che plasmi un Macbeth basato più sulla qualità del suono che sullo scandaglio del fraseggio non può dirsi un difetto, in un giovane cantante ai primi approcci con questo gigantesco ruolo. Daltronde, non mancano i momenti in cui centra perfettamente il senso della frase: come il bellissimo «Né Banco obliate chè lungi tuttor» nella scena del banchetto.
La Theodossiou si difende con maggior grinta, a costo di gettare un po di fumo negli occhi: interpola un sopracuto non del tutto riuscito alla fine del primo atto, ma si astiene dalleseguire il Re bemolle in pianissimo nella scena del sonnambulismo; altrove tenta invece pianissimi e “filati” simil-Caballé, talvolta incongrui rispetto al momento scenico. Daltronde, la Theodossiou supposta erede della Caballé era quella dei primi anni di carriera: da tempo la cantante greca, confidando più sulle risorse del temperamento che sulla natura vocale, si è trasformata in un soprano che gioca le carte migliori non nella sfumatura, ma nellincisività; anche se lacustica del Teatro Verdi di Pisa non giova alla sua voce, stemperandone la forza di penetrazione ed evidenziando il retrogusto tagliente. È un retrogusto non sempre gradevole, ma che per Lady Macbeth funziona: se cantasse sempre a questo modo, senza occasionali infingimenti, la Theodossiou sarebbe una Lady ideale, anche perché, al contrario di Vitelli, può già contare su un pieno dominio del personaggio. Quanto agli altri interpreti, una certa usura in termini timbrici e di fiato sembra farsi strada nel Banco di Francesco Palmieri, che resta comunque un basso affidabilissimo sottoutilizzato dai nostri teatri. Troppo dimesso, sul piano vocale come su quello interpretativo, il Macduff di Stefano Ferrari. Nella doppia parte del sicario e del medico spicca il veterano Franco Federici, comprimario di lungo corso.
Una scena dello spettacolo
La parte visiva è ben realizzata grazie alle coreografie di Anna Redi che può contare sul buon Corpo di ballo del Teatro Sociale di Trento e alle scene di Alessandro Ciammarughi, semplici e funzionali come si conviene a uno spettacolo che deve circolare in molti teatri. La regia di Andrea De Rosa pecca talvolta di antimusicalità: Macbeth e Banco entrano in scena accompagnati da un tema orchestrale che è il loro inequivocabile biglietto da visita, e mostrarli già da prima in palcoscenico, intenti in puerili giochi di spada (unallusione alla componente omosessuale tipica di tanti compagni darme?), vanifica leffetto. Per il resto De Rosa imbocca, con esiti spesso felici, la via di un medioevo barbarico occhieggiante al Macbeth di Orson Welles, con il filtro di pochi elementi talmente stilizzati da risultare camaleontici. Così, di volta in volta la tomba di Duncan si trasforma in tavolo del banchetto, letto nuziale, trono: questultimo gettato a terra dalla Lady in un moto di rabbia che la Theodossiou trasforma in momento scenico emozionante.
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