drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

L'urlo di Medea

di Giulia Tellini
  Patrizia Zappa Mulas
Data di pubblicazione su web 08/12/2008  
Com'è noto, tragedia euripidea vuole che Medea venga abbandonata da Giasone e che, per vendicarsi, provochi la morte della rivale, Creusa, del padre di lei, ovvero il re di Corinto, e infine dei due figlioletti avuti dal marito. Un'altra leggenda vuole, invece, che a uccidere i bambini siano stati i Corinzi, e che verso la prima metà del V sec. a.C., stanchi di dover sopportare l'onere di questa colpa, i loro lontani discendenti abbiano pagato Euripide per scrivere una tragedia in cui, come unica responsabile dell'infanticidio, potesse apparire Medea, ovvero la straniera per eccellenza, la "barbara".

Nel nostro dopoguerra, per la precisione nel 1949, in una suggestiva riscrittura del mito (La lunga notte di Medea), Corrado Alvaro immagina che la protagonista, tutt'altro che responsabile della morte di Creusa, nel giorno delle sue nozze con Giasone, mandi, anzi, i propri figli a palazzo carichi di doni per lei (la bellissima corona e il velo), che Creonte cominci però a urlare a tutti gli astanti «non vi avvicinate! Abbiate paura dei doni della fattucchiera! Non vi avvicinate! I doni di Medea sono mortali!», che la giovanissima promessa sposa, sbigottita e frastornata, si copra gli occhi per non vedere il tumulto della folla impazzita e muoia cadendo da una torre del palazzo. Quanto ai figli, Medea li uccide, sì, ma per evitare loro la sicura lapidazione da parte del popolo di Corinto.

A quasi sessant'anni dalla prima rappresentazione dell'opera (luglio 1949, protagonista Tatiana Pavlova), Giancarlo Cauteruccio la riadatta (da due tempi e tredici personaggi a un atto unico di cinquanta minuti e sei personaggi) e, dopo un anno di repliche in vari teatri e spazi più o meno all'aperto, la ripropone finalmente a Scandicci, dove, per così dire, può giocare in casa. Al loro ingresso, gli spettatori si trovano di fronte a una scena vuota (teli per terra, teli alle pareti e tavolate di diverse altezze disposte a semicerchio) e a una piccola platea di sei personaggi (e sarà, peraltro, piuttosto pirandelleggiante la stagione 2008-2009 del Teatro Studio) che, a sua volta, li sta a osservare. Bianca, la scena assorbe qualsiasi tipo di luce (sia colori caldi che freddi) e immagine proiettata dall'esterno, e viene presto riempita dalle musiche originali (folk calabrese) di Peppe Voltarelli (eseguite dal vivo da Raffaele Brancati, Gennaro De Rosa e Luca Marino).


Patrizia Zappa Mulas
Patrizia Zappa Mulas

Le scene, che nella tragedia di Alvaro superano la ventina, si riducono di più della metà. Nella prima, Medea, a colloquio con due donne di Corinto (le cantanti Laura Marchianò e Rosalba Di Girolamo), si domanda perché il marito tardi a tornare a casa («e mio marito tarda. Perché tarda?»), immagina alla reggia il suo incontro con Creusa, riconosce in lei se stessa da ragazza, riconosce in lui l'uomo che l'ammaliò e la sedusse («lui sa piacere») e, a chi le chiede perché non lo lasci e se ne vada via, risponde: «si parte finchè si spera di fare quell'incontro che deciderà della nostra vita. Ma io chi debbo più incontrare? Io lo feci il mio incontro. Era lui, Giasone. Lui. Era il mio incontro». Seguono il colloquio con Creonte («- tu devi lasciare questa città», «- appena tornerà da me Giasone», «- devi partire sola!», «- e i figli di Giasone?», «- saranno eredi di un regno. Giasone è un campione della Grecia. E tu sei una vagabonda. Invisa a tutti. Non posso salvare te e lui insieme», «- Ma io ho paura! Perché non c'è più nessuno con me, se non il destino») e la preghiera (alias orgasmo) che Medea, in ginocchio, rivolge alla «fiamma divina» («fiamma portentosa, dammi un focolare») e che si conclude, lei sempre per terra e sempre più abbracciata a se stessa, con un suo pianto disperato.

La scena successiva, centrale da tutti i punti di vista, è il colloquio della protagonista (che si autodefinisce «corrotta dall'amore») con Giasone, ovvero con un individuo che, al contrario dell'opportunista privo di scrupoli euripideo, è un meschino, fallito e depresso ex eroe pieno di tic, del tutto incapace di stare fermo un momento (mentre le parla passeggia freneticamente su e giù per le tavolate) e di vedere le sofferenze di cui è causa, un po' maschilista e un po' egoista, sempre vittima e mai colpevole, un po' ipocrita e un po' carrierista: «- tu ora diventi re. Io di te avevo fatto un eroe»; «- tu? Venere mi protesse»; «- ma sì, Venere. E Giunone. E Medea»; «- E oggi Creusa. Questo vuoi dire»; «- e dove trovi un uomo riuscito che non abbia alle sue spalle una donna? E che non la dimentichi per un'altra che è una nuova promessa di conquista?». Presuntuoso, impassibile, la memoria cortissima: «te sola ho amato», dice a Medea. Che lo conosce fin troppo bene, sa indovinarne in anticipo le mosse e gli ribatte: «e credi di dirmi una cosa grande. E che mi basti. Quale onore! Che degnazione! Oh, sarà felice, Medea, vagabonda, zingara, di avere avuto l'amore di Giasone. Avrà un'intima soddisfazione. Ah, veramente il prezzo dell'amore degli uomini è troppo caro. E tu parli così, senza un tremito, senza un'emozione, come se fossi un dio cui tutto spetta. Miserabile! Che in un'impresa sei veramente grande: nell'ingannare una donna!».


Fulvio Cauteruccio e Patrizia Zappa Mulas
Fulvio Cauteruccio e Patrizia Zappa Mulas

L'abilissimo riduttore-adattatore (Giancarlo Cauteruccio, crediamo, anche se sulla locandina non è scritto) salta poi una lunga parte del testo originale e, dopo un buio in sala e in scena nel quale si consuma l'angosciosa «lunga notte» della protagonista, passa, dribblando ogni rischio di stasi drammatica, al momento dell'azione vera e propria: dopo essersi convinta, nottetempo, che la cosa migliore da fare sia pensare al futuro dei figli («i miei figli saranno al sicuro, staranno col loro padre alla reggia», scrive Alvaro e sottintende Cauteruccio), Medea li manda a palazzo («ragazzi, ora la nutrice vi porta a una grande festa. Vi porta dal re. La figlia del re sposa. Tutto sarà bello. La sposa ha molte ricchezze ma gliene manca una, la più grande, che noi tenevamo in serbo nella nostra casa. Voi gliela porterete») e, alla fine, messa di fronte al rischio di vederseli lapidare dalla folla, li pugnala (di spalle: crescendo musicale, rapido gesto delle braccia verso il basso, colpo di tamburo e una luce rossa che d'improvviso inonda tutto il bianco della scena). Finale: Giasone da sinistra e Creonte da destra entrano in scena, l'uno, sempre più preda di tic, spingendo una barella (per i suoi figli) e l'altro, che continua a pensare al suo popolo alla sua discendenza e al suo regno, una candida sedia a rotelle per l'unica figlia (Creusa come l'Ofelia dell'Hamletmachine mülleriano), morta forse suicida (e non è perciò Pasolini il primo a parlare di una Creusa suicida!). Le ultime due battute («- Popolo di Corinto!»; «- ci hanno lasciati soli. Sono andati a raccontare i nostri fatti, e a consolarsi di non essere né potenti, né ricchi, né forti. E dovremo vivere ancora. Toccherà ancora vivere») e, poi, i sei personaggi (Medea, Giasone, Creonte, un bambino e le due cantanti-coro) appaiono tutti alla ribalta, si girano e, in silenzio, tornano a sedersi, a guardare il pubblico e la scena vuota.

L'anonimo, prodigioso adattatore-montatore (Cauteruccio, continuiamo a credere) comprime la tragedia in cinquanta minuti di inarrestabile climax ascendente e la affida alla suggestione delle musiche, dei canti, delle luci e dei tre straordinari interpreti. Giancarlo Cauteruccio, incastonato nel suo trono come Aldo Fabrizi nel suo angusto scranno in C'eravamo tanto amati, sembra nato per la parte di Creonte, ora crudele ora patetico. Fulvio Cauteruccio, l'uomo del mare, che non appena compare in scena il bianco s'inonda d'azzurro e si sente rumore di risacca, è un inetto Giasone di desolante squallore, monumentale nella sua vigliaccheria: e si noti che Alvaro poteva (-voleva) alludere, con questo personaggio, agli ex eroi fascisti sopravvissuti alla guerra…

Diafana la pelle, esile la corporatura, la voce dolce, quasi sommessa, priva di qualsiasi accento e lievemente rauca, Patrizia Zappa Mulas, prezioso scrigno di finezze interpretative, è una Medea umanissima, di sconcertante modernità, debole eppure così forte, sottoposta a continue e quasi insostenibili prove eppure mai destinata a spezzarsi. Cremisi l'abito di lino, borgogna le maniche sempre pronte a lasciarle nude le spalle (: la fragilità), carminio gli stivaletti, bordeaux e malva il mantello, amaranto il rossetto, cangianti i suoi capelli lunghi e rossissimi, la Zappa Mulas gioca col proprio aspetto da "rossa malpelo" (ed ecco i pregiudizi del popolo) e crea una Medea nordica (mentre le donne del coro, Creonte e Giasone hanno tutti un aspetto mediterraneo) che sembra uscita da un quadro di Munch: sola, perseguitata da tutti e prigioniera degli eventi, le orecchie tappate per non sentire l'urlo assordante della realtà, decide di sacrificarsi completamente per amore dei figli. Attrice espressiva fino ad essere espressionistica.



Medea e la luna
cast cast & credits
 
 

 

 

 

 

 


Drammaturgia.it su Medea: 


Medea, regia di Peter Stein

Medea, regia di Anatoli Vassilev

Medea, secondo Irene Papas




 



 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Medea e la luna
Medea e la luna



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




 

 


 

Medea e la luna
Medea e la luna


 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013