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La rivincita del dramma

di Marco Luceri
  Galantuomini
Data di pubblicazione su web 09/12/2008  
Lo sguardo duro e appassionato di Lucia (alias Donatella Finocchiaro) in mezzo al traffico caotico di una Lecce abbagliante. Sotto il sole e la calura del Mediterraneo, il suo cuore sembra battere per la vita, che in questo caso è una fuga, senza orizzonte, da tutte le responsabilità del mondo (quelle dell'amore, della maternità, del clan). Braccata come una cagna bastonata, se ne va, trasportando i suoi riccioli neri verso un'altra sponda, mentre l'amore perduto, poi ritrovato, e poi ancora perduto, se ne sta lì a guardarla fuggire, come aveva fatto tante volte.

E' il finale di Galantuomini, ultimo film del regista salentino Edoardo Winspeare, conosciuto ai più come il cantore sincero e solitario di una terra, la sua, attraversata dai rimorsi di un passato mitico e doloroso (Pizzicata, 1995), da un presente di battaglie e sangue (Sangue vivo, 2000) e da un futuro incastonato perennemente tra la brutture della Civiltà e le bellezze della Natura (Il miracolo, 2003). Un cinema, il suo, fatto di paesaggi assolati, duri e splendidi come le pietre che li spezzano, di volti duri e sanguigni, attuali e arcaici al contempo, e di storie moderne dietro le quali riemerge, pulsante, il senso arcaico della ritualità e della mitologia del sud, di tutti i sud del mondo, quelli dove anche il battere insistente della musica lotta contro le barriere artefatte e crudeli del Tempo e della Storia.



Nei Galantuomini l'occhio di Winspeare, quell'occhio da documentarista quasi omerico che ha permesso alla sua mdp di muoversi sulla scena del mondo in un rapporto di amore (rosselliniano) con il reale che andava filmando, sembra essere quasi scomparso, relegato a fare da semplice sfondo a una storia, un melodramma un po' gangster-movie, irrimediabilmente lontano, nonostante le intenzioni, dall'elegia poetica della trilogia che lo ha preceduto. In questo nuovo film, che sembra presentarsi, nella filmografia del regista, come un'evoluzione o un passaggio necessario verso qualcos'altro, lo sguardo moderno sulla natura, sui luoghi, sui volti, viene relegato (purtroppo) solo alle tre o quattro sequenze dell'infanzia di Lucia, a quella splendida corsa senza tempo sui tetti assolati, sui pomodori stesi al sole ad essiccare, rossi come il sangue e la verità. Lo spazio di alcune ellissi temporali, insomma, e niente più.

Non c'è perciò nei Galantuomini quel rapporto dialettico tra passato e presente che ad esempio in Sangue vivo apriva i canali verso il mito, o quello tra paesaggio e narrazione che costituiva la vera cifra stilistica de Il miracolo, per non parlare poi della dilatazione assoluta (a tutti i livelli di messinscena) e potentissima di Pizzicata, che resta ancora il suo film più riuscito. Con la sua originale maestria Winspeare era così riuscito a sopperire alla fragilità delle sceneggiature dei tre film, proprio perché la scrittura era una delle tante forme (e non "la" forma) del suo cinema, ragion per cui la componente visiva acquistava così una felicissima predominanza.



Nei Galantuomini è avvenuto il contrario: il regista salentino ha lasciato spazio alla drammaturgia (inevitabilmente più forte e coerente, grazie anche alla presenza di uno scrittore d'esperienza come Andrea Piva, fratello del regista barese Alessandro), alla storia, agli attori (per la prima volta si è trovato a dirigere un cast di affermati professionisti, dalla già citata Finocchiaro a Fabrizio Gifuni, da Giorgio Colangeli a Beppe Fiorello) e ha asciugato il suo stile per metterlo al servizio di una narrazione fluida, solida, quasi di genere che, sebbene fuori dalle sue corde, è tuttavia in un buona parte riuscito a tenere sotto controllo. Il tutto, però, proprio per questo, è irrimediabilmente troppo simile a qualcos'altro per essere un film di Winspeare, anche se questo non deve essere considerato necessariamente un male in sé, visto che il desiderio di rinnovamento e sperimentazione è spesso un bene.



Non ci si meravigli dunque di fronte al fatto che il film è caricato sulle spalle della Finocchiaro, una Lucia, inusuale donna-gangster, in mezzo alle faide della Sacra Corona Unita, la mafia pugliese che tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Novanta, insanguinò le strade della regione, prima di essere sconfitta e debellata dallo Stato. Attorno a lei un nugolo di personaggi violenti e sanguinari, densi di sensi di colpa e incapaci di vivere al di là della quotidianità. Lucia è dunque per necessità una donna da tragedia, divisa tra il dovere e la spregiudicatezza imposta dal suo ruolo di malavitosa e la dimensione naturale di madre e moglie dai sentimenti chiari e definiti. Uno schematismo che, sebbene prevedibile, la Finocchiaro ha interpretato con convinzione, caricando il personaggio di uno sguardo duro e disincantato sul mondo, e accentuando fino allo spasimo la maschera tragica di Lucia: un'interpretazione di carattere sicuramente notevole, anche se troppo monocorde e priva spesso di accenti (auto)ironici che pure nel film non mancano (ragion per cui troppo frettoloso, nonché eccessivamente lusinghiero, appare il confronto con Anna Magnani).



Resta, la sua, una prova quindi buona, come altrettanto convincenti sono state quelle di Colangeli e di Fiorello, non solo per l'accuratissima dizione, ma anche per l'intelligente lettura dei personaggi che i due attori hanno dato e che si è poi concretizzata soprattutto in una performance cerebrale (per il primo) e in una decisamente fisica (per il secondo). Deludente invece Gifuni, che conserva un aplomb davvero fuori ruolo, troppo simile anche lui a tutti gli altri personaggi (già visti) della sua carriera, e forse ormai irrimediabilmente tarati sul padre de La ragazza del lago. Winspeare però ha saputo dirigere i suoi attori in maniera egregia, dando ampio spazio alla loro creatività, riconducendoli a un registro aderente al reale e alla caratterizzazione locale dei personaggi e dosando sapientemente tempi e modalità delle battute. Galantuomini resta dunque un film di passaggio, ma se costituirà un'involuzione o un'evoluzione ancora non è dato saperlo, per ora accontentiamoci, si fa per dire, di vedere che anche nel cinema di Winspeare il tragico ha ceduto il posto alla tragedia.




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